Faerûn's Legends

Il Canto dell'Odio

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view post Posted on 25/7/2019, 17:46
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Predatore di Coboldi

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Su questo molo il freddo punge più dell’odore dolciastro e marcescente del porto. Non so perché ho avuto bisogno di venire qui per scrivere, tra il vociare insolente dei marinai e l’andirivieni delle donne di malaffare.
Che sia colpa del tempo passato in quella compagnia d’artisti? Forse una parte del mio cervello riconosce la poesia di questo tramonto, e il richiamo cupo e indolente del mare che scivola nel buio.

Da qui posso vedere le mura tetre e il profilo caotico degli edifici ammucchiati in un illusorio vortice di rassicurante civiltà.
La luce bruciante del tramonto squarcia nuvole plumbee che vanno diradandosi. Sopra i tetti aguzzi, per metà illuminati e per metà in ombra, gli ultimi raggi lenti del sole declinante assumono colori che non appartengono né al colore né alle cose che colorano. Scende una grande quiete sulla superfice rumorosa della città che sta scivolando nel silenzio.
Oltre il rumore, oltre il colore, oltre la vita e la sua insensatezza, la notte respira con fiato profondo e muto.

S’attenua la luce, che con la sua fatua presenza avvolge le cose di banalità ilare. Prediligo l’ora in cui ogni cosa si spegne. Vana come il rimestare la cenere, vaga come il momento in cui non è ancora l’alba.
Aspiro a una notte senza memorie e senza illusioni, una notte in cui il destino dipinga la sua apocalisse. Una notte fatale, in cui il tiranno disegni il futuro di tutti coloro che, come me, non ne posseggono alcuno.

Nella semioscurità ambigua di questo luogo io ridivento l’abisso del nome che porto. Perché ogni nome ha una voragine, che nella penombra si apre e germoglia.
Semi d’odio e risentimento che il vento della distruzione spargerà sopra la cenere.


≑≑≑≑≑

Zhentil Keep.
Forse è vero che il tempo miscela i ricordi e scolorisce gli ardori.
La rivedo con occhi nuovi, la chiamo casa, le chiedo persino di darmi uno scopo.

Com’è efficiente l’odio che la permea.
Con quanta facilità supera gli ostacoli, si avventa sui deboli, agguanta i brandelli di false speranze.

Un sentimento antico, che da solo genera le cause del suo continuo rinascere.
L’odio non si addormenta, l’insonnia che provoca lo rafforza.

La religione lo nutre, la tirannia lo giustifica, ma è un seme solitario che a tutto questo sopravvive.
Capace, sveglio, laborioso, lui solo trascina le folle.

E quanta bellezza riesce a creare!
Splendidi i suoi bagliori nella notte nera, magnifiche le nubi delle pire nel rosa dell’alba.
Signore trionfante sulle rovine, maestro del contrasto tra violenza e silenzio, tra il sangue e la neve.

Dicono che l’odio sia cieco, ma è l’unico, lui soltanto, che costantemente guarda risoluto al futuro.


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Un’accademia. Libri polverosi, odori che si sovrastano, scie alchemiche, arti imbalsamati, sguardi vacui. Domande.

Non conosco la mia strada.
E’ un pesante sipario di velluto scuro oltre il quale va in scena l’atto decisivo che potrebbe cambiarmi la vita. Ma io resto lì, nella sala vuota dell’attesa tra realtà e finzione, dove ancora non posso scrollarmi di dosso il peso del passato.

Non conosco la mia strada, ma accetto la mia determinazione, il bruciore costante nelle viscere che mi chiede di diventare qualcosa di dirompente.
Di esplodere, erompere, trascendere, squarciarmi, annullarmi.
Quel seme insonne prenderà voce, e io non sono ancora pronta a domarlo.
Ma lo sarò. Senza fuggire, lo sarò.

Come quell’uomo? Ombra o fantasma? Il cadavere vivo di ciò che un tempo è stato vita perduta.
Gemme cupe affondano negli incavi vuoti. Un abisso silente, voragine d’ogni ragionevolezza. Il sangue sulla pelle penetra nelle pieghe invisibili, e neanche il fuoco lo laverà via.
Mi terrorizza non avere paura.

Mi credono sprovveduta. Attenderò il mio turno. Imparerò, servendo.

E’ questo che avresti voluto per me?



❆ . ● . ❆ . ● . ❆ . ● . ❆ . ● . ❆


*Il taccuino degli appunti di Silerah è un semplice quaderno rilegato in cuoio dalle pagine in ruvida pergamena grezza. Le facciate riportano appunti sparsi, presi con grafia svolazzante e veloce, inframmezzati a diverse bozze eseguite a carboncino e sanguigna con discreta perizia.*


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view post Posted on 14/8/2019, 10:04
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Zhentil Keep - 1379 CV - Anno degli Eroi Avventati

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Nell’ampia soffitta stipata con mobili polverosi e letti a castello addossati alle pareti, il vociare dei bimbi risuona fragoroso creando una gran confusione. La Signora Marybel, dal vestito umile ma decoroso e le mani uncinate coperte di rughe, insegue uno dei piccoli più scalmanati cercando di metterlo a dormire.

Una mezzelfa dai graziosi boccoli dorati se ne sta appollaiata su un mobile addossato alla finestrella che si affaccia sulla strada del quartiere sud, appannando il vetro con il proprio fiato. Gli occhioni celesti, grandi ma privi dell’entusiasmo tipico di una bambina, fissano le lanterne accese nel vicolo con silente pazienza. Dimostra all’incirca otto anni, e tra i capelli biondi spuntano due evidenti orecchie a punta.

Dopo aver messo a dormire la maggior parte dei bimbi a lei affidati la donna è ormai al limite delle proprie forze. Si avvicina a Silerah, sistemandosi i grigi capelli raccolti nella cuffia di cotone, e mentre riprende fiato, stremata dalla lunga giornata passata a badare ai piccoli troppo attivi per la sua età, poggia la mano adunca sulla testolina della mezzelfa.

“Vieni giù da lì e dai il buon esempio ai più piccoli, fila nel tuo giaciglio Silerah.”

La mezzelfa preme di più il naso contro il vetro, e la smorfia imbronciata che assume ha tutta l’aria di preannunciare un pianto. L’anziana donna ha un moto di fastidio, tuttavia continua a carezzarle la testa con gentilezza per poi strattonarle il braccio allontanandola dalla finestra.

“Non verrà. Ha detto che sarebbe passato una di queste sere, non stasera. Ricordati che sei fortunata, più di tutti gli altri. Tuo padre mantiene sempre le promesse…quando può. Se venisse domani? Non vorrai che ti trovi con cinque dita sul viso perché hai disobbedito, eh?”

A quella minaccia la piccola sembra cedere, restituendo lo strattone con il braccio e liberandosi dalle mani stanche della donna.
Quando l’ultimo lume si spegne nella soffitta adibita a dormitorio, lo sguardo azzurro di Silerah è ancora puntato verso il soffitto. La mascella serrata e i pugni stretti sulle coperte, mentre interroga il buio con tutte le domande a cui non ha risposta.


≑≑≑≑≑ Qualche giorno dopo ≑≑≑≑≑


La porta si spalanca cigolando, inondando il pavimento d’ingresso con uno scrosciare di pioggia battente. La figura robusta in controluce si libera di un pesante mantello scuro gocciolante, che viene prontamente accolto da lady Marybel insieme alla consegna di un sacchettino di monete.

Silerah sta sbirciando la scena da dietro un angolo del corridoio opposto all’entrata. Lo sguardo pieno di speranza, mentre sfrega con insistenza la mano bendata contro lo spigolo del muro, come a dover placare un terribile prurito. Quando l’uomo avanza a sufficienza per scorgerne il volto illuminato dal fuoco nel camino, la mezzelfa prorompe finalmente in un urlo di gioia correndogli incontro.

Il soldato Maliwane è un uomo di mezza età, il fisico asciutto, il volto scavato ma tenuto in ordine con barba rasata e capelli brizzolati corti. Ha gli occhi scuri, poco espressivi, stanchi. La sua mano ruvida e solcata da numerose cicatrici afferra quella della piccola mezzelfa, accompagnandola verso la stanza riservata alle visite, lontano dagli sguardi curiosi degli orfani.

Lady Marybel si affaccia all’uscio, osservando i due, rivolgendosi con tono secco all’uomo prima di chiudere la porta.

“Ha manifestato di nuovo quegli sprazzi incontrollabili di magia. Quale sciagura per questa povera vecchia che tanto si adopera per la sua tutela!”

Il tono lamentoso della donna fa storcere il naso a Silerah, che in tutta risposta affonda il viso contro il fianco del padre, cercandovi rifugio. L’uomo fa uno sbrigativo cenno alla donna, invitandola a lasciarli soli. Poi, con gesti incerti, sembra cullarla il minimo che il suo temperamento poco affettuoso gli concede.

“Fammi vedere la mano…cos’è successo stavolta?”

Silerah racconta al padre l’ennesimo involontario sfogo del potere arcano che sembra scorrerle nelle vene. Quel potere che che la sua balia cerca in tutti i modi di farle sopprimere, alimentando in lei la convinzione di essere “sbagliata”, uno scherzo di natura per duplici motivi.

“Non devi vergognarti di ciò che sei, figlia mia. L’elfa che ti ha messo al mondo non merita nemmeno di essere chiamata madre, ma il suo sangue ti ha dato qualcosa, qualcosa che può renderti forte. Una degna figlia della Nera. Non vuoi che tuo padre sia fiero di te, un giorno?”

La piccola ondeggia la testa, ancora preda di un involontario broncio che ne arriccia le labbra rosee. Poi sembra finalmente ritrovare un adorabile sorriso, annuendo prontamente al padre.
Presa da improvvisa foga fruga nella tasca della giacchetta, e ne tira fuori un foglio ripiegato in quattro, mezzo stropicciato, mostrandolo al padre. E’ un disegno a carboncino, la rappresentazione abbozzata e stilizzata di un soldato con le insegne di Bane che tiene per mano una bambina, sullo sfondo di una casa e un albero su una qualche immaginaria collina.

L’uomo prende il foglio accarezzando nuovamente la testa della piccola, che istintivamente continua a grattarsi la mano fasciata, probabilmente ustionata magicamente.

“Non reprimere ciò che sei, Silerah. Cresci forte, potente, e devota. Un giorno ti racconterò di Garos Rakastan, e di come uno stregone possa diventare estremamente importante nella nostra città.”

La mezzelfa ascoltava sempre con enorme curiosità le storie del padre. Nella sua mente prendevano forma i volti di quei grandi uomini di cui le parlava. Eroi ancora in auge, oppure caduti, ma importanti quanto basta per essere ricordati. Alaric Ganondorf, Askard Urgrash, Imoden'id Erotaroda, Darkivaron Salas, Garos Rakastan. Gente che era partita da qualche parte, e che poi un bel giorno era arrivata.

Così le diceva il soldato Maliwane, che otto anni prima aveva stuprato un’elfa dall’animo tanto fragile da non riuscire a tenere con sé il frutto di quella violenza. Il soldato Maliwane, che passava undici mesi su dodici in missione per conto dell’esercito, e non aveva mai sperato di farsi una famiglia. Ma quando aveva visto quel fagotto dolce con gli occhi azzurri e pieni di vita, aveva sentito qualcosa spezzarsi dentro.
In quegli occhi aveva scorto un qualche futuro, un futuro che avrebbe portato il suo nome.

“Di che colore ha i capelli questo Garos, papà? Voglio disegnarlo stasera!”

L’uomo continua a placare la curiosità della mezzelfa ancora per un po’, concedendole le attenzioni che può darle così di rado.
Ma anche quella sporadica occasione di gioia è destinata a finire, lasciando nel cuore di Silerah il sentore di un vuoto che non si riempirà mai abbastanza.

[ ...continua... ]

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Edited by Aurin - 14/8/2019, 12:33
 
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view post Posted on 15/8/2019, 16:03
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Zhentil Keep - 1383 CV - Anno delle lame elfiche

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Fa freddo tra le cupe mura di Zhentil Keep. Persino nelle antiche case nobiliari, costellate di lussuosi camini in cui costantemente ardono focolari ravvivati dalla servitù, è impossibile non soffrire la morsa del gelo nelle notti d’inverno.
Fa ancora più freddo nelle case popolari, dove gli infissi sono pieni di spifferi e i vetri incrostati da accumuli di neve. Ci si scalda dormendo vicini, ammucchiando le pesanti coperte rattoppate, tremando un po’, finché non sopraggiunge il sonno.

Silerah ha dodici anni, e ormai è una degli “ospiti” più grandi a casa della Signora Marybel. Nonostante il padre paghi ancora per la sua permanenza in quella dimora per orfani, la vecchia padrona di casa esige da lei che curi la casa e i bambini più vivaci. In cambio le permette di passare un intero giorno a settimana in biblioteca, dove la mezzelfa sembra aver trovato l’unico limbo di pace nella sua inquieta esistenza volta soltanto ad attendere le visite sempre più sporadiche del padre. Quell’uomo che ha idealizzato al punto di vederlo come unica ragione di vita.

Fa terribilmente freddo quando la mezzelfa raggiunge il suo letto quella sera. Gli orfani sono tutti coricati, anche due o tre nello stesso letto, per trovar maggior tepore nel contatto dei corpi. Silerah si è conquistata il giaciglio solitario vicino alla finestra e ne va maledettamente fiera. Sta crescendo solitaria e introversa: il chiasso dei bambini la infastidisce, e altrettanto la loro vicinanza.

Quando cala la sera e i piccoli si addormentano, arriva il momento che maggiormente agogna. Scende il silenzio nell’ampio salone, e nella luce tremolante della candela può sfogliare il proprio quaderno dei disegni, arricchendolo ogni giorno di qualche dettaglio in più.

Talvolta è costretta a rannicchiarsi in posizioni scomode, pur di sfuggire agli sguardi invadenti di Jacob, uno degli orfani suoi coetanei. Non riesce proprio a sopportare il semplice brusio che sembra provenire dai suoi pensieri, che lei considera certamente indegni e gretti. Una volta, per sbaglio, gli ha fatto cadere addosso una teiera da una mensola, solo guardandola per un attimo e sussurrando qualcosa. Da allora è convinta che lui stia meditando una qualche vendetta.

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Una mattina come tante altre, la mezzelfa si sveglia in preda agli spasmi per il freddo opprimente. Mentre strofina le mani sulle braccia per scaldarsi, si avvia verso l’angolo della toletta puntando lo sguardo ancora assonnato sul proprio riflesso nello specchio.
Un urlo agghiacciante percorre il dormitorio, provocando il pianto di alcuni dei più piccoli svegliatisi di soprassalto. A sovrastare i piagnistei c’è però un’altra voce: una risata maschile, sadica e beffarda.
Jacob si avvicina alle spalle di Silerah puntandole il dito contro e canzonandola con la crudeltà genuina tipica dei bambini.

“Meticcia! Meticcia! Sangue sporco! Orecchie lunghe!”

Il riflesso nello specchio mostra il bel volto della giovane mezzelfa senza più l’ornamento grazioso dei suoi capelli. Alcuni corti ciuffi rimangono sul suo capo, tagliati in maniera rozza mentre lei dormiva, e le lunghe orecchie di retaggio materno sembrano ancora più grandi in quell’assenza di cornice.

Lo sguardo di Silerah rimane attonito per qualche lungo istante, inchiodato a quello specchio che riflette uno dei suoi peggiori incubi. Un secondo urlo segue il primo, ma stavolta è colmo di rabbia e ferocia. Un’esplosione troppo a lungo rimandata di una profonda frustrazione e solitudine, solitamente celata dietro un apparente distacco dal mondo.
Al secondo urlo si accompagna una repentina scossa gelida che dalle mani della mezzelfa si schianta contro lo specchio, mandandolo in frantumi. Persino lei trasale, ancora incapace di comprendere ciò che sprigiona il proprio corpo.

“Strega! Strega!! L’ho sempre detto che sei una strega, ora la sentirai la signora Marybel!”

Le risate di scherno di Jacob, e di alcuni altri bimbi più impertinenti unitisi al coro, si placano in un istante al sopraggiungere della padrona di casa. La giovane mezzelfa è ancora immobile di fronte allo specchio in frantumi, concentrata nell’immane sforzo di stipare nuovamente tutto quanto dentro di sé. L’ira, la rabbia, la sofferenza, il rancore. Lentamente, ma alla rinfusa, ognuno di quei sentimenti insopportabili torna a chiudersi nel corpo esile e irrigidito in uno spasmo di disperato autocontrollo.
Una sola lacrima bollente solca il volto di Silerah, mentre viene trascinata a forza dalla vecchia Marybel a subire l’inevitabile punizione.

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E’ un giorno come mille altri a Zhentil Keep, quando una ragazzina magra ed imbronciata attraversa la piazza del patibolo con un grosso sacco sulle spalle per completare le commissioni extra che le sono state impartite. Un cappuccio di lana sfilacciata le copre in parte le lunghe orecchie, e qualche corto ciuffo biondo le adorna la fronte.

Mentre cammina addossata alle pareti per non essere travolta dal flusso dei viandanti, la città pulsa di vita malsana e angosciante tutto intorno. Qualche mugugno strozzato proviene dai patiboli, il vociare dei mercanti è sommesso, i passi dei cittadini sono veloci quanto basta per sbrigare i propri affari senza incorrere in qualche brutta faccenda.

E’ una città che respira cenere e nevischio, una roccaforte di soprusi, angherie e infamie, in cui il destino sembra una veste cucita addosso che lentamente finisce in stracci.

Eppure Silerah sopravvive. E cresce, così come i suoi splendidi capelli.


sil_grown


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view post Posted on 17/8/2019, 15:25
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Zhentil Keep - 1387 CV

death

Scorrevano placidi i mesi a Zhentil Keep, monotoni e ripetitivi. Silerah era cresciuta tra le faccende domestiche, l’accudire gli orfani insieme a lady Marybel, e le preziose fughe in biblioteca.

Il soldato Maliwane si era fatto vedere sempre meno, impegnato com’era a farsi spedire in missione lontano dalla città. A volte si era chiesta se suo padre non desiderasse in fin dei conti morire. Coraggiosamente, servendo La Mano Nera.
Mentre lei ancora sognava il giorno del suo ritiro dall’esercito, per vecchiaia. Allora avrebbero potuto finalmente prendere una casetta soltanto per loro, come una famiglia vera: religiosa, rispettosa, onorevole.

Ma anche questi pensieri intrisi di timida speranza non avevano troppo spazio nella mente di Silerah. Lentamente diventava sempre più solitaria e chiusa in sé stessa. Obbediva, svolgeva le proprie faccende con scrupolo, si lasciava vivere imparando a farsi scivolare addosso ogni presenza esterna.

Nonostante questo, la sua mente cresceva avida, curiosa, affamata. Un giorno decise di essere abbastanza grande da potersi cercare un lavoro tutto suo, finalmente lontano da quella casa di bambini urlanti.
Così rispose a un annuncio affisso sulla bacheca del teatro cittadino. Non che aspirasse a recitare o a mettersi in mostra: se mai avesse scoperto di avere una bella voce o saper suonare degnamente, per nulla al mondo avrebbe concesso tale dono al prossimo. Il suo unico obiettivo era racimolare un guadagno tutto suo.

Il gestore del teatro cercava una figura che si occupasse di fare ordine, assistere dietro le quinte durante gli spettacoli, e poi svolgere le pulizie. Tutte cose che lei poteva fare tranquillamente: la sua pazienza inattaccabile era proverbiale.
Come l’immobilità di una montagna antica mentre attorno infuria la bufera e nelle viscere la corrode la lava.

La presero dopo il primo colloquio, forse anche grazie al suo bell’aspetto. Del resto è risaputo che gli artisti cedono con facilità all’edonismo ed amano circondarsi di cose belle.

Furono mesi decisivi per la vita della mezzelfa. Iniziò a conoscere un mondo diverso, per quanto circoscritto quanto quello dell’orfanotrofio. Nella musica e nel teatro scoprì l’esistenza di milioni di storie, paesi, volti, avventure.

In quell’ambiente trovò anche sé stessa, scoprendo il suo essere donna. Nel rapportarsi con artisti, attori e musicisti, iniziò a sviluppare la parte più estroversa del suo carattere. Giorno dopo giorno accettò la consapevolezza di essere graziosa e attraente, e a sfruttarla a proprio vantaggio.

Per la prima volta nella sua breve esistenza si dovette confrontare con nuovi desideri, che si distanziavano dalla sua ossessione per il padre e la famiglia.
Fu al teatro della Nera che un giorno conobbe Erik. Un menestrello tutto fare, affascinante e dalla parlantina spigliata. Silerah si prese per lui una sorta di cotta adolescenziale, che la rendeva cieca a sufficienza da non accorgersi che l’uomo si intratteneva con più donne di quanti fossero gli spettacoli in cui si esibiva.

Quell’infatuazione le costò la scelta più azzardata della sua vita: partire con lui e la sua compagnia errante, in un lungo viaggio verso la Costa della Spada.

Trascorse con loro quasi due anni.

Due anni sono lunghi, se misurati con la pigra clessidra di una vita monotona nel grigiore di Zhentil Keep. Ma quei due anni furono incredibilmente brevi per la mezzelfa, che li passò a girare il mondo e ad infilarsi di continuo in nuove avventure.

Il confronto con realtà diverse le aprì gli occhi su molte cose: smise di reprimere il suo dono magico, volenterosa anzi di coltivarlo. Ma non riuscì mai a liberarsi dell’altro suo fardello, nascosto sotto soffici boccoli acconciati alla moda della Costa.

La cotta per il bardo le passò in fretta. Tutta la sua curiosità era volta ad apprendere, studiare, leggere libri, parlare con persone che avessero storie interessanti da raccontare. Era assetata del mondo, e non aveva alcuna intenzione di fermarsi a scegliere il proprio futuro, non ancora.

Regolarmente scriveva lettere al padre per tranquillizzarlo e raccontargli sprazzi di quella sua vita avventurosa. Lui non rispondeva mai, ma come avrebbe potuto? Era una girovaga senza fissa dimora.

≑≑≑≑≑

Dopo il secondo inverno passato lontano dal Mare della Luna arrivò la nostalgia. Le attanagliò il collo con una presa delicata ma inesorabile.

Un’ubriacatura durata per mesi, e poi un bel giorno la lucidità nell’affrontare i postumi.

Si rese conto che non avrebbe potuto continuare a lungo con quella vita senza futuro. Suo padre le mancava, e per qualche perverso motivo le mancava anche la sua città.
Era come se Zhentil Keep avesse seminato qualcosa dentro di lei, molto tempo addietro. Un seme nero, che aveva continuato a crescere espandendo terminazioni rampicanti in ogni meandro del suo corpo.

Ed il ricordo di ogni sopruso, ogni sofferenza, di tutte le angherie subite, si ergeva come un’ombra silenziosa che ovunque andasse la seguiva alle spalle.
Talvolta persino lei aveva il terrore di girarsi e trovarsela lì, sempre un po’ più grande, sempre un po’ più buia.

Negli ultimi giorni di primavera comprò il biglietto per la carovana diretta ad est.
Sarebbe stato un lungo viaggio, e stavolta lo avrebbe fatto da sola.

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*dal vecchio e sgualcito taccuino di Silerah*

pensieri_sile

[ ...continua... ]

 
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view post Posted on 19/8/2019, 11:38
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~ Zhentil Keep, 1389 cv ~


La città nera l'accolse con la freddezza di una madre degenere. Ebbe l'impressione che nulla fosse cambiato in quei due anni, mentre attraversava il quartiere povero guardandosi intorno.
Passò davanti alla casa di dama Marybel e stranamente non sentì urla o schiamazzi provenire dell'interno. Scoprì qualche giorno dopo che la donna era morta l'inverno precedente, di crepacuore. Jacob, il suo prediletto, era stato giustiziato proprio in quella casa dal clero banita per aver cospirato con il Sole Nero. La vecchia non aveva retto il colpo, e la stessa notte si era lasciata morire per il dispiacere.
Una vita passata ad accudire giovani promesse e giovani furfanti, pochissimi dei quali finivano per avere davvero un futuro.

La caserma era esattamente come la ricordava. Un colosso scuro di pietra, inespugnabile, dietro il quale immaginava brulicare decine di uomini uguali a suo padre. Forgiati, temprati... Soli.
Si avvicinò ad un soldato di guardia chiedendo gentilmente informazioni sul soldato Konel Maliwane, del quinto reggimento dell’esercito Zhent.

<< Bah, ragazza. Sono nel quinto reggimento da un anno e non l'ho mai sentito. Sarà morto da qualche parte. Oppure è scappato. >>

Il cinismo agghiacciante del soldato la colpì come uno schiaffo in pieno viso. Cercò di non scomporsi, e si congedò con un cenno senza aggiungere altro.
''Bentornata a casa'' - pensò tra sé.

La successiva meta erano gli uffici dei militari, dove contava di trovare qualcuno più abituato al rapporto col pubblico.
Un impiegato ai registri le indicò alcuni archivi in cui era possibile consultare i nomi dei caduti o dei dispersi, per annata.
Silerah indugiò qualche minuto, ripetendo a sé stessa che forse era meglio prima cercare qualche vecchio collega del padre, che avrebbe certo potuto dirle in che zona fosse in missione attualmente.

Tuttavia i registri erano lì davanti a lei, e non ci sarebbe voluto che un attimo.
Aprì quello riportante la data dell'anno precedente, e poi l’anno prima ancora. I nomi erano in ordine alfabetico.

Madowin... Maelne... Maglaron… Mal…

Maliwane.


Il fiato le si fermò in gola. Serrò gli occhi così forte che nel buio delle palpebre le sembrò di scorgere le vene esplodere in tante stelle rosse. Quando li riaprì il suo dito era puntato sulla pagina, all'altezza di quel cognome.
Fece un bel respiro e lo lasciò scorrere verso destra.

...Konel.

Non riuscì a reagire. Nulla di nulla. Fissò la pagina fitta di nomi e continuò a leggere.

Maliwane, Konel. Caduto in missione nel Thar, nel mese di Kythorn 1387 cv.

Suo padre era morto, pochi mesi dopo la sua partenza con la compagnia teatrale. Forse non aveva mai letto neanche una delle sue lettere.
Era caduto laggiù da qualche parte a est, combattendo nel nome del Tiranno, versando il suo sangue per lei, per quel segretario dietro la scrivania, per il soldato che poco prima non aveva avuto pietà nel gufare il suo destino.
Era morto coraggiosamente, ma pur sempre morto.

Non ci sarebbe mai stata una casa tranquilla sulla collina, con una sedia a dondolo davanti al fuoco per un vecchio con decine di storie di guerra da raccontare.
Non ci sarebbe mai più stato nemmeno un abbraccio, una parola di conforto.

<< Fai la brava Silerah, obbedisci alla signora Marybel e prega Bane ogni sera. >>

D'ora in poi avrebbe potuto soltanto continuare a crescere per esaudire i desideri di un fantasma. Diventare forte, potente, devota. La figlia ideale di un padre scomparso.

''Bentornata a casa'' - sembrò dirle il vento gelido, che si infilava tra gli infissi ululando, e tra i suoi capelli scompigliandoli.

''Non c'è niente per te qui, a meno che tu sia pronta ad accogliere l'odio nel tuo cuore. Bentornata a Zhentil Keep.''


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Si risvegliò bruscamente sollevando la testa dal tavolo sul quale si era appisolata. Con uno scatto nervoso del braccio aveva rovesciato la boccetta di inchiostro ed ora il nero stava macchiando tutto il tavolo, alcuni fogli degli appunti, e due dita della mano mummificata oggetto del suo studio.

Trasalì e si guardò rapidamente intorno: l'aula era vuota. Si era trattenuta all'Accademia per studiare troppo a lungo, cedendo alla stanchezza.
Pulì come meglio le fu possibile il tavolo, poi dipinse il resto della mano non-morta con l'inchiostro nero. In fin dei conti la trovava più bella così.

Quando scese per le strade era già notte fonda. Una pallida luna disegnava i contorni dei palazzi e illuminava i volti dei passanti incappucciati creando affascinanti penombre.
Respirò a fondo l'aria pungente, fermandosi nella zona del porto a contemplare i lavori incessanti dei non morti adibiti alla ricostruzione.
Aveva partecipato anche lei a quei preparativi, aveva avuto idee utili, si era sentita ''nel posto giusto'' senza tuttavia trarne sollievo.

Strinse il bastone che le aveva donato il suo Maestro, e dovette respirare a fondo qualche minuto per ricacciare nell'abisso dei propri tormenti i germogli di risentimento che tentavano di affiorarle dalle labbra come veleno più volte digerito.

Le avevano detto che le avrebbero insegnato a diventare una brava Zhent. Come se si potesse davvero scegliere di esserlo o diventarlo.
Come se non fosse una condanna antica, radicata nel sangue con il primo vagito alla nascita, plasmata sulla pelle ad ogni violenza subita, coltivata nel cuore con ogni lacrima mai versata. Perché uno Zhent non può dimostrarsi debole. Perché uno Zhent vive nella perenne inquietudine di essere prevaricato, sottomesso, annientato.
Perché ogni respiro è paura, e ogni speranza si nutre di vendetta.

I sussurri nella notte, le grida delle vittime, i lamenti al patibolo, i bisbigli dei furfanti, le preghiere di misericordia, gli inni al tiranno…sono voci isolate che incessantemente confluiscono in un unico coro inquietante e ossessivo.
Un canto dell'odio.


Sile

 
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view post Posted on 30/8/2019, 13:00
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ink


Di sera passeggio dentro di me, avanti e indietro sui solchi dell’abitudine, alla ricerca di un punto di equilibrio tra la bellezza del giorno che muore e la quiete del sonno, tra un cielo di vaghi colori e la dura terra dove vivo.

“Ora e sempre, Signore.”

Non ho altro con me che il fluido chiamato fantasia. Con esso mi staglio in tramonti vermigli e mi affaccio in brezze immaginarie su spiagge lontane che non ho mai visitato.
Tra le righe di un libro catturo l’anima di qualsiasi sogno che non m’appartiene e ne bevo fino all’ultima goccia.
Ma rimane sul fondo il residuo della vita, come l’unico sogno che in quel fluido è insolubile.

“La seconda regola è che te ne devi fregare.”

È una sera indolente questa, in cui la stanchezza tarda a raggiungermi per strapparmi da me stessa.
Il sommesso brusio lungo le strade ingarbuglia i pensieri, annebbia la vista, sottende significati.
C’è un punto morto nella notte, dove fa più freddo e il tempo è più nero, dove il mondo ha dimenticato la sera e l’alba non è ancora una promessa.
Un tempo in cui è troppo presto per alzarsi, troppo tardi per andare a dormire.
Un’anticamera onirica, annegata nel vino, da riempire di sussurri e di storie che avremmo dovuto tacere.

“Lode al Tiranno, lode alla Nera!”

Mi perdo come una vagabonda in questa sera che non porterà pace. Cercando l’ispirazione che colmi il vuoto, la scintilla che ravvivi la fiamma.
Osservo la gente, i loro gesti scontati, i volti piegati in mille caricature con così poco significato. Incrocio i loro sguardi, li rasento appena.
Lascio che si rompano su di me come gocce di pioggia sporca.

“Ho l’impressione che non debba essere facile per te…”

Mi fermo a osservare una prostituta nei vicoli che scendono verso il porto, impregnato dell’odore della morte che si mischia al fetore del pesce.
Lei mi sfoggia un sorriso contagioso, quello di chi ha sofferto tanto. È dannatamente bella, vestita dei suoi sbagli.

“Bane ti osserva, figliola.”

Risalgo verso il quartiere popolare. Una bambina apre l’uscio di casa al padre stanco che ritorna da una giornata di lavoro. La luce dall’interno della stanza si riversa sulla strada buia. Il riso cristallino di quella creatura innocente mi buca lo stomaco.

“Ogni germe di queste mura sembra dirti trattieniti, stai alle regole…”

E’ bizzarro come a volte si realizzi qualcosa di tremendamente importante nella spietatezza di un attimo banale, e quasi insignificante, se inserito nel complessivo scorrere del tempo.
Come quando da piccola capisci che la neve è una poesia candida in grado di uccidere col suo gelo, o che un uccello caduto dal nido non potrà più volare.
O come quando cresci, e comprendi che l’innocenza si infrange col passare del tempo, che siamo diversi dietro gli occhi degli altri, e crescerà a dismisura il bisogno di nasconderlo.

“Forse sono quei momenti in cui perdi il controllo quelli in cui sei davvero te stessa.”

Richiudo la porta di quella che a quanto pare sarà la mia stanza. Il silenzio piomba tra le anguste pareti di pietra scura. Con avide fauci inghiotte ogni suono, ogni rumore, ogni brandello di vita.
Per un istante desidero ardentemente sentire ancora qualcosa bruciare, solo per non perderlo, solo per non perdersi.

Sulle labbra permane quel sapore amaro ed intenso, erbe aromatiche cresciute in un sole che splende solo oltre oceano, in un mondo fantastico rappresentato nei libri con una miriade di colori.
Anche i miei capelli ne sono impregnati. Li raccolgo con cura per intrecciarli prima di coricarmi, mentre passeggio intorno cercando qualche dettaglio a cui aggrapparmi. Linee d’ombra su muri grigi, una stanza spoglia come tante altre. Anonima.

“Ciò che perdiamo ci rende chi siamo.”

Le mie dita sono ancora sporche, un lieve alone scuro di cenere.
Non sono prigioniera se non di me stessa. Ma non sono nemmeno libera.

Non dovremmo guardare le cose, né le persone. Soltanto gli specchi riflettono oscuramente chi siamo in realtà. Una sconsolata distesa di maschere lasciate ad asciugare al sole torrido di un’estate spietata.

Eppure ripenso a quegli occhi. A tutto ciò che hanno visto, ai racconti sconclusionati, alle risposte a metà, alle domande mirate. Al controllo. Al perderlo.

Sentirsi vivi, quando tutto intorno odora di morte e terrore. Quando il gelo è nel vento, negli sguardi, nelle parole, nelle distanze.

Fuoco? È questo che c’è dietro i “Signore”?”

Memorie incastonate in gemme d’ambra, trofei solitari troneggianti nel mezzo di desolati deserti. Drammi mai resi alla fonte della collera che esige vendetta.
Passioni strangolate da mani livide di sangue, veleno e rancore.

Mi piace chi sceglie con cura le parole da non dire.


sleep

 
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view post Posted on 6/9/2019, 10:21
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Tirò un calcio secco contro la porta chiusa dopo aver bussato invano. La vecchia non c’era, oppure non aveva alcuna intenzione di parlarle. Probabilmente stava escogitando un modo per ucciderla nel sonno, con quelle sue arcigne mani raggrinzite che con tanta disinvoltura passavano dal gesto dell’elemosina a quello dell’assassinio.

Fece pochi passi e rientrò in camera sua sbattendo la porta. La mezzelfa era decisamente spazientita, ma il confine dell’autocontrollo ben lungi dall’essere anche solo sfiorato.
Così non era stato la sera precedente alle terme, eppure non sembrava aver intenzione di crucciarsene per il momento. Le premeva più che altro liberarsi dal sentore dell’olezzo che proveniva dalla camera adiacente.
Non era più sicura se fosse reale o se le fosse rimasto addosso solo il ricordo, impregnando le narici ed attaccandosi come una piaga invisibile ai vestiti.

Portò una manciata di quel tabacco nero vicino al naso, inebriandosi dell’odore pungente in grado di annullare la nausea. Poi per sicurezza si spruzzò ancora un po’ di profumo sul collo. Gelsomino ed essenza di rosa. E Nero di Maztica. Una bizzarra associazione. Starnutì, e lasciò perdere il cassetto dei profumi.

La fiammella della candela stava ancora danzando sui residui di cera sopra il tavolino, proiettando ombre mutevoli sulle pareti dell’angusta stanza. Si appoggiò alla scrivania espirando con stanchezza e malavoglia, lasciando lo sguardo correre sui libri aperti abbandonati e i fogli pieni di scarabocchi.

Oltre le scartoffie troneggiava la candela, illuminando i pochi oggetti personali di Silerah sui quali si fermò il suo sguardo.

Un modellino di nave, intagliato con cura da mani esperte, ritraeva la tipica imbarcazione Zhent con il caratteristico velaggio e l’albero di mezzana volutamente spezzato. Nulla che sembrasse avere un apparente valore.

Proprio accanto un altro oggetto in legno, stavolta più pregiato. Una pipa dalle venature rossastre, su cui era stato intagliato con minuziosa pazienza il volto di un golem.

La mezzelfa rimase a osservarli nella penombra, con la tipica aria crucciata di chi è completamente immerso nel fiume dei propri pensieri.

Solo molti minuti dopo si decise ad accendere il candelabro e a scrivere come di consueto alcuni appunti sul diario prima di coricarsi.


libro_sile_personaggi


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Cosa si nasconde dentro gli occhi di una persona? Mentre li guardi, li scruti, e non riesci a vedere altro che una timida pupilla tremante, che aspetta la palpebra per nascondersi e riapparire diversa, meno nuda, meno attaccabile?

Cosa si cela dietro gli occhi dei propri aguzzini? Coloro che ci odiano, che ci disprezzano, che neanche ci vedono.
E dietro gli occhi timorosi? Dietro le palpebre che non proteggono abbastanza? Dietro il servile sibilo di un “Sì Signore”?

Bizzarro orrore nel connubio quotidiano della sottomissione e del potere. Lo splendore ed il terrore che si baciano, si nutrono di un'anima e di un corpo.

Ancora li fisso quegli occhi. Tutti quanti. Convinta che possa esserci un angolo trascurato dal quale tuffarsi per vedere oltre. Eccola, proprio lì, la botola verso l’abisso che le parole tenteranno sempre di tenere chiusa.

Cosa c’era negli occhi di quell’uomo mentre calpestava la vecchia china ai suoi piedi? Con così tanta intensità ho bramato di vedere una scintilla, un’emozione sadica o perversa, una qualsiasi. Ma con mia terribile sorpresa non ho potuto scorgere che il niente.
Perché cerco la sua approvazione come se fosse un feticcio del padre che non potrò più avere?
Lo temo ma non posso rifuggirne. Come il vortice di un gorgo marino che prima cattura e poi restituisce morte e relitti. Mi ostino a compiacere questa rigida disciplina nell’impazienza controllata di chi trema sull’orlo del precipizio e non vede l’ora di gettarvisi.

E nei suoi occhi verdi? Perennemente schermati dall’arrogante strafottenza di chi è convinto di potersi sempre salvare? Dietro i sorrisi di beffa, l’ironia, l’amarezza? Un costante scarto sottile tra lui e il resto del mondo, e le fessure che tuttavia lasciano aperta una strada. Illusoria?
Ho sognato così tanto negli anni. Sogni che pervadevano la realtà sovrapponendosi all’orrore. Come la sensazione che ho adesso, osservando il mondo attraverso il fumo che ha il suo odore. I contorni annebbiati somigliano a infinite possibilità che svaniscono nel tempo di un respiro.
Le cose non dette, anche solo a metà, e le confessioni involontarie, che nel momento in cui prendono la forma di parole appaiono terribilmente stupide. “Perché un golem?”

Oggi ho viaggiato in altri occhi. Celati da palpebre stanche e cadenti, ingrigiti, densi di polvere e memorie. Uno sguardo estraneo, che improvvisamente ha aperto uno spiraglio inatteso. Attimi veloci, che scivolano via nell’affaccendarsi quotidiano lasciando un sentore di familiarità. Una nota prolungata nel silenzio di una stanza chiusa che risuona esattamente come avresti desiderato.
Voglio ricordarmi di lui, del vecchio Theodor, che ha combattuto contro Mulmaster tornando su una nave mezza distrutta, che porta sul viso i segni di una vita dura e cruenta, delle battaglie, della resistenza. Il vecchio Theodor che forse ha conosciuto mio padre, e che parla della sua città con la fierezza di un amore aspro e temprato dalla sofferenza.

Voglio addormentarmi pensando a quegli occhi. Che lasciano cadere le difese anche se siamo tutti consapevoli che qui non ci è concesso farlo. Perché abbiamo paura, perché l’odio ci storpia la faccia e la rabbia ci indurisce le mani.

Come lei, che dorme qui accanto crogiolandosi nel viscidume del proprio opportunismo. Lei che deve pur essere stata giovane un tempo. Lei che forse ha fatto i miei stessi pensieri, prima di piegarsi al giogo inevitabile degli eventi.
Lei che esiste con la sua bieca moralità sotto uno strato di pelle lercia e raggrinzita che ho visto sfiorare dalle mani di lui. Parole suadenti e morbide, mentre le sue pallide dita avvicinavano l’orrore di quella carne molle. Un terribile paradosso in bilico tra il fascino dell’orrendo e l’istinto verso il pulsare salubre della vita. Ancora rabbrividisco ripensando a quella sensazione. Il panico che mi urlava di non guardare e l’impossibilità di distogliere lo sguardo.

Il suo odore mi ha impregnato le narici, la mente, i pensieri.

Che odore ha il dolore? Come il freddo, la solitudine, la paura o la morte. Anche il dolore ha un odore.
Tante volte ho provato a decifrarlo, ma si nasconde, si diluisce, si camuffa. Offre piste fasulle.
Ha qualcosa di chiuso, di rancido, qualcosa di narcotico. Potrebbe essere alcool, vertigine o nausea.

Odora poiché esiste. Nelle occhiaie violacee, nei calici dell’insonnia, nelle cicatrici paonazze dell’attesa o dell’angoscia.
Odorano i corpi nel dolore, odorano la febbre e l’ombra, la stanchezza, la miseria o la fame.
Odora il mio corpo avvilito contro il muro, soverchiato dal possesso, annegato nell’incompreso.

La morte è sotto la mia pelle, uguale a un insetto in un bicchiere rovesciato. Di tanti affanni non resterà che il torbido residuo di quell’odore.

Il ricordare come ci si leva una benda per rabbia da una ferita fresca.

Solo frammenti, dettagli a sangue, svolte fulminee. Oscurità e fumo.


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smoke

 
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view post Posted on 5/10/2019, 17:32
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heart_smoke_Sile


Le piazze affollate, le musiche già sentite, la gente che si urta per strada, le pagine accartocciate, l’inchiostro sprecato.
I pensieri, le preoccupazioni, i sotterfugi, gli stratagemmi, i complotti, i rischi, i guai.

- … È mancanza? …È vuoto? -

I sussurri al veleno, le parole di zucchero, l’aria stantia dell’abitudine.

- …Forse è nostalgia. Si può avere nostalgia di qualcosa che non si è mai realmente avuto?… -

I silenzi, le vesti logore, i lividi, il corridoio sempre troppo breve per contare la fatica di questi passi verso la porta che separa dal mondo.
Ombre che attendono, che non chiedono, non rispondono.

Le strade lastricate di pietre nere sono rassicuranti come prigioni labirintiche dotate di un’incrollabile geometria. Un disegno perfetto, un equilibrio antico.

Le teste che si inchinano, le ginocchia che si prostrano, la neve che traccia tragitti tra cielo e terra. Sono traiettorie perfette, rette ineluttabili.

Una linea tesa tra due punti, tra infiniti punti. Il filo sospeso dell’equilibrista: un mestiere sobrio, rude, scoraggiante. Nessuna svolta che non sia una caduta. Una prigione invisibile che guida verso una sola direzione, e tutto intorno lo spazio del rischio, acrobazie necessarie.

Ci battiamo contro gli elementi, ostinati nella nostra follia di vincere i segreti di una linea.
Ci scontriamo con la morte, quella che ci precede, che volteggia intorno a noi ogni volta che danziamo.

Sola sulla fune, piena di un’audacia invisibile, pallida come il cadavere che diverrò. Malgrado i lustrini ed i veli colorati, esangue, l’anima livida.
Ma dotata di una precisione perfetta, senza alcun legame con il suolo, l’aria, la corda, la vita. Lacrime d’acciaio che al contatto con l’aria perdono consistenza.

Cosa posso io? Nell’attesa di una prigione di parole che sibilano nel vento corrodendo le fondamenta incrollabili.

Cosa posso io? Dove scappare, salire? Verticali che attraversano il cielo, monoliti perenni di arrogante sopraffazione, filo d’inchiostro che sbatte sui fogli come il vento sulle finestre di notte.

L’abilità della danza, questo mi serve. Trasformarmi in equilibrista sporca di grazia, una fune sottile nel cielo immobile, il vento a sorreggermi, ballare con furia abbracciando la follia che mantengo a distanza.
Questo vorrei: perdere la lucidità che posseggo, ingoiare e sputare la mente, oberare il cielo di nuvole tra me e voi. Tutti voi.

Il vociare della taverna non riesce a cancellare nella mia testa la voce dell’ennesima persona che se ne andrà.

Ci fosse un solo motivo per vacillare, forse allora scavalcherei il burrone. Con passo leggero, con le ali che non possiedo.

Mani fredde mi spingono. C’è un’unica direzione.

“Non opporti.”

La magia è un battito di ciglia che scatena bufere inarrestabili.


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stones


Rocce simili a monoliti, e lastre di pietra forate da parte a parte in molteplici fessure adibite a spiragli per la voce del vento. Melodie confuse, echi imprecisi, la quiete al centro della bufera.
Un luogo misterioso al centro del Faerun. Quattro portali, infinite possibilità. Tutte assolutamente casuali.

“Venti di altri luoghi che si mischiano, aria di mare e di montagna. La senti la salsedine?”


È una radura circolare, e io continuo a vedere quella retta. La fune.
Magari vado avanti ancora un po’, mi spingo passo dopo passo, senza vacillare. La vita alle spalle è un muro, un cammino abbandonato, un tarlo nel legno che non lascia altro che il vuoto. È uno spazio cieco, tagliato fuori, invano riempito.

Saltare, o arrendersi.

“È da quando sei bambina che ti dicono in cosa credere, come comportarti. Qui nulla di tutto ciò ha senso. Esisti tu, il fuoco che hai dentro. E quando qualcuno cerca di spegnerlo devi semplicemente incenerirlo. E alla somma di tutto, è l’unica cosa su cui potrai sempre contare.”

È tutto maledettamente lontano ora. Potremmo non tornare mai più, potremmo morire oggi. Sparire così, senza esser mai riuscita a capire nemmeno chi sono.
Non è così per lui, che se il vento lasciasse dei calli sulla pelle glieli potrei contare uno ad uno.

Penso che quando è con me sono la regina del mondo.

Vado in giro con una sicurezza che nessuno può compromettere. Sono una vincente, sono imbattibile, posso fare qualsiasi cosa. Chiudere gli occhi e puntare il dito, verso l’ignoto e la follia.

Quando è con me mi crolla tutto addosso.

Sono consapevole del divario, dei miei limiti, di essere solo una ragazzina. Nella sua presenza scorgo l’assenza che c’è stata e che ci sarà. Il mondo sta per finire e questo freddo è la mia punizione.

“Sì, ho scelto quello. Sì, sono sicura.”

Sorrido, e mi dico che la vita si ascolta così: come un soffio di vento.
La brezza cresce, spazza via le nubi, cambia le cose. Poi, tutto torna come prima...ma non è più la stessa cosa.



≑≑≑≑≑


giganti


Il fianco delle alte cime innevate offre una salita ripida e difficoltosa. Lupi famelici ci ostacolano di tanto in tanto, facendo risuonare i loro ululati nel silenzio cristallino del gelo che ci circonda.

Mi volto indietro ed osservo la scia delle nostre orme sulla candida neve: una traccia netta che sparisce all'orizzonte inghiottito da una fitta bruma. Siamo molto in alto, e il freddo inizia a farsi pungente. Sopravvivere contro gli abitanti di questi luoghi è un gioco a dadi col destino.

Quel destino che qui assomiglia a una tempesta di neve che muta incessantemente la direzione del percorso.
Per evitare la tormenta cambi l’andatura, ma ti accorgi che il vento cambia con te, per seguirti meglio.
Tu allora ti giri di nuovo, e subito il vento cambia per adattarsi al tuo passo.

Questo si ripete infinite volte, come una danza sinistra con il dio della morte prima dell’alba.
Perché quel vento non è qualcosa che è arrivato da lontano, è qualcosa che hai dentro. Quel vento sei tu.
Perciò l’unica cosa che puoi fare è entrarci, in quel vento, camminando dritto e danzando con lui.

Anche quando la neve lascia spazio alla lava, e le cascate di fuoco ti entrano negli occhi risvegliando quei demoni che vorresti combattere.

“Questa tua paura ti tiene qui, bloccata. Le paure fanno parte di noi quando le affrontiamo, altrimenti è solo roba utile al clero. Arriva un momento in cui dobbiamo fare pace con i nostri demoni, per quanto grandi siano.”


≑≑≑≑≑


Le vie lastricate di marmo bianco si aprono dinnanzi al mio sguardo con una magnificenza e un’opulenza che sento straniere.
È stato un viaggio lungo, è stata un’avventura folle. E ora è tutto finito, anche se lui è ancora qui a fianco a me.

“Sai dove trovarmi e io so dove trovare te. Ma devi pur sempre sceglierli i portali, altrimenti non troverai nessuno, anche se sai perfettamente dove andare.”

Posso risalire sulla mia retta, domare i demoni, affrontarli, e riportarli esattamente dove tutto è iniziato. A casa mia. Dove mi attende il vuoto di coloro che ho già perso, e coloro che perderò.
Un fuoco che arde lasciando soltanto cenere.

“Non ti sto dicendo di scappare. Segui la tua via. Ma non perché hai paura di andartene. Il Faerun ti appartiene, che sia bianco o nero il marmo su cui cammini.”

Vorrei un cuore artificiale, nessun suono, se non questo pianoforte pieno di violini. Un meccanismo perfetto, spietato e infallibile, distante il necessario dall’amore straziato dal lirismo, dalla bellezza, dalla dolcezza, dal dolore.

Non speranza, non la rabbia, non la delicata voglia delle braccia che ti tengono per sempre, nessun suono, non cadere per l’affanno di trovare della luce laggiù in fondo, nessun suono, non questo pianoforte pieno di violini.

Vorrei un cuore artificiale, ferro duro sotto il petto, guerriera che non soffre nella lotta, questa tregua, questa anestesia insopportabile, questa corsa in mezzo al sangue senza lacrime, sempre altrove, sempre forte, invulnerabile.

Prova a ferirmi, io non sento, non ci sono, sempre altrove, sempre forte. Prova a ferirmi, colpisci con potenza, fammi fuori, urlami qualcosa di terribile, sbranami. Io non sento, non ci sono, sempre altrove.

Ho questo cuore, questo cuore difettoso, questo cuore mostruoso, questo cuore spaventato, questo cuore che chiede, questo cuore che cerca la vittoria. Lui mi vuole presente, lui vuole vincere, lui vuole me stessa.

Rumori e fantasmi si muovono nelle mie stanze di notte, allora mi sveglio, provo a scriverti, voce che si trasforma in inchiostro per non sentirmi, per ascoltare altre voci che stanno arrivando.

Solo nel buio io vedo le parole, solo negli atroci silenzi, solo quando il dolore viene a trovarmi. Il dolore ha occhi che non finiscono, cosa ne sanno loro, quelli che giudicano, gli sciacalli fuori dalle finestre?

Enorme e straordinaria bellezza deforme, punizione divina per il prescelto con la testa reclina verso un concluso tramonto. Cosa capiscono le piccole bestie con il buio dovunque? Sotto la terra, da sotto la terra sporgono gli occhi.

Un giorno avrò membra di ferro, un cuore d’acciaio, diventerò una fessura nell’aria.


≑≑≑≑≑


ey


Manca poco all’alba. La locanda è silenziosa, avvolta nell’ultimo abbraccio del buio. Lascio scivolare una pagina strappata dal mio quaderno sotto la porta accanto, silenziosa come un ladro che rifugge l’arrivo della luce.

Magari lo calpesterà senza neanche vederlo, oppure lo noterà, strofinandosi gli occhi ancora appesantiti dalla stanchezza. Non è importante l’esito. Sono solo portali casuali, possibilità infinite. Nessuna è migliore di un’altra. Nessuna di esse mi salverà.

*un semplice messaggio su un foglio strappato da un quaderno, nessuna firma*

"E’ qualcosa da cui non puoi mai scappare, il vento.

Il vento incanta, uccide, commuove, spaventa. Fa anche ridere, alle volte, sparisce, ogni tanto, si traveste da sussurro, oppure costruisce tempeste. Non da risposte, è saggio, è dolce, è potente, è imprevedibile.

Ma soprattutto…il vento chiama. Non fa altro che questo: chiama.

Non smette mai, ti entra dentro, ce l'hai addosso, è te che vuole.

Puoi anche far finta di niente, ma non serve. Continuerà a chiamarti.

Questo vento che senti e quel vento che invece non sentirai quando chiuderai le imposte e cercherai di fuggire, ma che ci sarà, sempre, in agguato, paziente, un passo oltre la tua vita.

Instancabilmente, lo sentirai chiamare.

Senza spiegare nulla, senza dirti dove, ci sarà sempre un vento che ti chiamerà.
E un portale magico che ti aspetterà.
E una direzione precisa da seguire per ritrovare qualcuno che rimarrà ad aspettarti, al centro del ciclone."


Percorro le strade ancora semideserte e chiedo indicazioni ad un soldato circa l’ubicazione delle carovane.

- … È mancanza? …È vuoto? -

È una bella città, infondo. Come dargli torto?
Gli uccelli cinguettano salutando l’alba, e l’erba su cui cammino brilla di rugiada. Non fa nemmeno così freddo, qui.

Mi volto un’ultima volta verso le mura splendenti, con un gesto che appare il più semplice del mondo scosto i miei capelli dietro le orecchie appuntite, in una carezza che ha senso soltanto per me.
Non ho più motivo di nascondere chi sono.

“La prima carovana verso il Mare della Luna?”


Mani fredde mi spingono. C’è un’unica direzione.
 
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view post Posted on 14/1/2020, 22:20
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fire-1


Una placida notte cinerea a Zhentil Keep, indolente e pigra, appesantita da una fitta nevicata che attutisce le voci, condanna i disperati, copre il sangue dei patiboli.
Persino il nero delle pietre della città del terrore sembra sbiadire sotto il tocco spietato di un bianco violento che si impone dal cielo.

La mezzelfa sgattaiola fuori dagli uffici a sera inoltrata, avvolgendosi nel prezioso mantello intriso di magia invisibile. D’altronde lei stessa è un concentrato vagante di trama inespressa, pronta ad esplodere da un momento all’altro.
Eppure nulla sembra mai accadere, come una minaccia che si perde nel frastuono della tormenta, come il sangue nascosto da troppa neve. Ogni giorno si succede uguale al precedente, il tempo scorre e scivola addosso alle vesti di seta tinte di rosso vermiglio.

Un fiammifero acceso nei pressi di un focolare ardente. Inoffensivo, come il bel viso di una ragazzina che in fin dei conti non fa altro che stare al proprio posto.

“Vuoi scoprire davvero cosa significa impazzire?”

Un’isola ai confini del Faerun. Soltanto il vento, la solitudine, la disperazione. Un luogo dimenticato dagli Dei in cui quel fiammifero può imparare come si fa ad ardere più forte.
Le parole che si perdono nel mare, i consigli sbagliati, i suoi occhi che stillano il veleno necessario a trovare le risposte. La solitudine, la solitudine, la solitudine. Ma così diversa da quella che è abituata a provare.

Silerah scuote il capo senza alcun apparente motivo mentre cammina. Scaccia via quella che è soltanto una visione sfuggente tra i pensieri di una ragazza troppo impegnata a muoversi con prudenza nel gioco sottile della tirannia. Eppure ne sente il peso, come il macigno delle cose mai dette.

La neve scende soffice ora, parrebbe quasi voler ricoprire di carezze i detriti che lei stessa ha creato, infuriando poc’anzi come una bufera.
Silerah ha passo svelto, è già arrivata nel quartiere popolare, strisciando contro i muri ed evitando i pericoli dei vicoli troppo scuri. Conosce a perfezione ognuna di quelle sudice stradine, riesce persino a prevedere a quale svolta d’angolo potrebbe sprofondare in una pozza di sangue e vomito con i suoi eleganti stivali di pelle nera.

D’un tratto si ferma di fronte ad un edificio in evidente stato di degrado, solleva il viso pallido e grazioso verso l’alto, mentre il cappuccio le scivola sulle spalle, lasciando che la neve impreziosisca di cristalli evanescenti la bionda treccia.
Difficile ricavare qualche indizio dall’espressione ferma del suo volto, forse un osservatore attento saprebbe cogliere nello sguardo un velo di tristezza, ma chiunque la osservi in questo momento non ha alcun motivo d’esser interessato a quegli occhi.
Lentamente slaccia dalla cinta un mazzo di chiavi che produce un fastidioso rumore di ferraglia nel silenzio incantato della neve. Ne sceglie una, tra quelle contrassegnate col sigillo governativo delle case in vendita, e dopo aver lanciato una rapida occhiata intorno a sé si infila nella marcescente catapecchia.

L’aria è stantia, ma il freddo allevia la nausea che provoca. Qualche ratto spelacchiato corre lungo i profili dei muri scomparendo in una crepa poco distante, e fila di ragnatele abbandonate pendono dal soffitto.
La mezzelfa sfila lentamente il guanto sinistro ed avanza, sfiorando la parete ricoperta di muffa, quasi a voler percepire lo strato dei ricordi che le si sono aggrappati addosso. Muovendosi con la sicurezza di chi conosce il luogo avanza nonostante la penombra, sale le pericolanti scale a chiocciola, e solo alla vista dei numerosi lettini abbandonati sembra avere un sussulto.
A volte è inaudito il modo in cui il passato ritorna, imponendosi al presente senza averne alcun diritto.

Chiudere gli occhi significherebbe sentire le loro voci, le grida, gli scherni, e i singhiozzi nelle notti infinite ad attendere qualcuno, qualcosa, qualsiasi cosa che la strappasse da quella prigione.
Così non li chiude affatto, ma avanza, col passo sicuro di una donna che vorrebbe sembrare forte e determinata, ma solo per avvicinarsi a quell’amata finestra, aprirla per lasciare entrare i fiocchi di neve, e accovacciarsi a terra con la schiena contro il muro.

Nel pallido raggio di luce lunare riflesso dalla neve, la mezzelfa sceglie un foglio dal proprio quaderno, e dopo averlo strappato inizia a scrivere.


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Vorrei avere qualcuno a cui scrivere, iniziare questa lettera con “caro amico mio, caro padre, cara sorella…”.
Non c’è nessuno che mi sia caro, nessuno di vivo. Vorrei scrivere a te, padre. Immaginarti al confine a combattere, leggere questa lettera tra le mani sporche di fango e le lacrime agli occhi. Invece le uniche lacrime che possono ancora scorrere bollenti sono le mie. Sulla tua tomba mai ritrovata.

Ma ti scriverò lo stesso in questa notte uguale a mille altre, ti scriverò come se tu fossi in pena per me, come se vi fosse ancora una ragione per lottare che non sia solo il mio testardo egoismo.

Ti racconterei di come passo molte ore a stilare registri ed apporre timbri, e le restanti a studiare su libri che probabilmente non mi restituiranno mai abbastanza risposte.
Ti direi dell’Accademia, ti parlerei del Rettore e dei suoi strani modi, forse potrei persino scherzarci sopra e tu mi rimprovereresti, da distante, sapendo che non potrei vederti invece sorridere.

Ti descriverei i sacerdoti di Bane, e saresti ancor più duro nel giudicarmi quando arriverei a dirti che nonostante la mia fede sia salda, scorgo troppe contraddizioni in quelli che mi appaiono soltanto uomini.
Ho tanto pregato per degli appigli da seguire come fiaccole nel buio, e invece ho trovato semplici uomini spaventati, che ingigantiscono la propria ombra per provocare più paura di quanta ne provino loro stessi.

E poi ti racconterei delle avventure, di tutte le creature incredibili che ho visto e dei guerrieri potenti che ho ammirato combattere. Figli della Nera, papà, proprio come te.
E solo quando saresti fiero di me, leggendo quelle parole, ti confesserei che il mio cuore batte per un ramingo che non appartiene a nessun luogo, e tanto meno a me. L’unico che ha intravisto la fiamma e non perde occasione di alimentarla.

Ti racconterei dei luoghi assurdi che ho visitato insieme a lui, degli esseri terrificanti che abbiamo fronteggiato, di come sono stupida e imprudente quando sono al suo fianco, danzando sul ciglio della follia verso le braccia della morte.
Eppure non ho paura padre, non ce l’ho mai, quando sono con lui. Decine d’occhi di beholder che mi fissano alle porte del sottosuolo mi fanno meno terrore della solitudine che provo qui, alla Nera, tra uomini dispotici e vuoti come pozzi nel deserto.

Cosa penseresti di me se ti scrivessi tutto questo, padre? E se ti dicessi che nonostante tutto, nel paradosso del mio sangue misto e diviso, continuo ad amare follemente questa città?
Che quando ero lontana, mandata in una missione di studio forzata, ho sentito una nostalgia così forte che chiudendo gli occhi mi sono ritrovata magicamente di nuovo a Zhentil Keep?
Sì, padre, la mia magia cresce. Ora posso attraversare i luoghi e non sentirmi mai troppo distante dal puzzo di morte e sangue che impregna quella che mi hai insegnato a chiamare casa. Beh, a dire il vero c’è un altro posto che ho imparato a raggiungere con la magia, ma più che un posto è forse un desiderio di trovarci qualcuno.

Imparerò a gestire tutto questo, continuerò a tenere acceso solo quel piccolo fiammifero...ricordi? Mi dicevi di giocare con quell’innocua fiammella se avevo desiderio di vedere il fuoco, per reprimere la fiamma che scaturiva istintivamente dalle mie mani.

Lo faccio ancora sai? Reprimo, soffoco, seppellisco. Ci sarà un giorno in cui non sarà più necessario fuggire su quell’isola per allenarmi ad impazzire. O forse no, e non sopravviverò neppure all’alba che verrà.
Perché questa è Zhentil Keep, e sotto la neve nessun fuoco vive a lungo.



≑≑≑≑≑


La mezzelfa accarezza il foglio rileggendolo, quando il suo sguardo arriva al finale le mani si accendono di bagliori incandescenti che intaccano la pergamena. In pochi istanti il foglio è cenere, che si libra nell’aria mischiandosi alla neve.


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view post Posted on 26/1/2020, 17:49
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L’ombra vasta della sera avvolge la città avanzando tra i vicoli meno affollati. I lumi si accendono e vibrano debolmente ai lati delle strade aumentando le ombre che danzano sul terreno consunto dal trambusto della giornata.
Saluto distrattamente il mercante intento a chiudere con diversi lucchetti il portone di un negozio e continuo a camminare infilandomi in una via secondaria. È così silenziosa Zhentil Keep dopo il tramonto: l'aria è pregna degli odori che la terra trasuda, gli anonimi profili delle case creano un mosaico tutto uguale, e il fumo dei camini si staglia contro un cielo limpido di gelo, sempre più colmo di stelle.

Scorro lo sguardo su questa infinita scena di inutili comparse che è l’esistenza, rallentando il passo senza neanche accorgermene. D’un tratto mi blocco come se un solo altro passo potesse costarmi la vita.
C’è un punto morto nel mio occhio. Una zona buia senza definizione. Se ascolto bene è il rumore di qualcosa che mi viene incontro, è qualcuno che chiama il mio nome e non mi conosce.
Ma io non cedo, non mi importa. Non guardo mai da quella parte. Fisso i miei occhi nella folla e mi dico che sarebbe troppo strano girarsi intorno.

Così riprendo a camminare. Sfilo indolente nel corteo funebre quotidiano, fingendo di essere il morto che il mediocre compiange. È l'unico modo che ho per sottrarmi all’ignobile nullità del restare.

Richiudo la porta di casa alle spalle e accolgo la semplicità del buio. In questo nulla che mi si allarga intorno percepisco ogni cosa come possibile, anche lo stratificarsi del tempo, il ritornare di ciò che è perduto.
So che se accendessi la fiamma scorgerei la banalità di questa stanza dozzinale, riempita dei miei oggetti e ridisegnata in forme che a stento mi appartengono. Invece accolgo il nero, affinché la notte si insinui alle mie spalle con la sua insonne intimità, facendomi sentire la sua voce profonda che mi sussurra fiabe dimenticate.

Un vero peccato di sentimentalismo acquistare proprio questa casa. Questa prigione in cui ho mescolato acido di inchiostro e sale sulle ferite. Questo focolare senza affetti, questa dimora di carta, destinata a bruciare tra desideri infranti e cicatrici di ferro.

<< Descrivimi il posto più bello che hai mai visto >> – è una frase così sciocca. Sono stanca di dovermi difendere in ogni istante, indossando armature troppo larghe che non so portare. Sto eseguendo una missione, anche ora, e sto facendo esattamente ciò che desidero. Dev’essere in questo confine labile che si sgretolano le maschere e si infilano i pugnali nel centro perfetto di un cuore pulsante.
Una visione di sangue denso e scuro si sovrappone ai riflessi del vino cremisi tra le mie mani, che per un impercettibile istante tremano.

- Controllo, Silerah -

Chiudo gli occhi per raccogliere i miei pensieri confusi figurando un’unica matassa che lentamente si riavvolge, seguendo la direzione che le sue parole mi descrivono, verso luoghi lontani che non ho mai veduto.

Quando li riapro siamo nel bel mezzo di un lago placido, circondati da alti pini che ondeggiano armoniosamente nel vento. Una sensazione di serenità così banale. Mi piace il suono rassicurante delle cose scontate, incastrate nel loro esatto posto, senza stonature o imperfezioni.
Potrei sopravvivere al caos per giorni interi, ripensando a un’immagine banale, scontata, finita. Una perla da portare in tasca e da accarezzare con le dita ogni volta che la ragione inizia lentamente a scivolarmi via.

Lui sorride, e nemmeno prova a infrangere l’illusione. Compromessi necessari, per combattere la crudeltà dell’esistenza. Quando i contorni magici iniziano a vacillare la realtà ritorna, e l’unico mio pensiero è un rimpianto: avrei voluto imparare a farlo molto tempo fa, quando qui dentro vivevo la realtà come un continuo incubo.

Fuggire sotto le coperte, chiudere forte gli occhi e iniziare a creare un altro mondo di fantasia che apparisse tutto intorno a me, fuggire in fiabe illusorie che prendessero il posto di quella squallida stanza, spaventare i mocciosi del dormitorio con creature mostruose nel cuore della notte.
Forse mi sarei persa nei meandri del mio stesso pensiero, per sempre esule e schiava di una bugia.

Invece sono qui, costretta a guardare negli occhi un altro estraneo. Oscillo come un pendolo il cui movimento aumenta impercettibilmente ogni secondo, e mi osservo dal di fuori aspettando di vedere quando il perno su cui mi reggo si spezzerà.


≑≑≑≑≑


libro_post_2

L’arena appare più imponente e schiacciante da quaggiù. La terra è smossa e scivolosa, una mistura di sangue e sudore, un odore pungente che mi stordisce. Ma le voci, le voci sono la cosa peggiore. Rimbombano come boati continui che rimbalzano tra gli spalti e le alte mura, per ritornarmi addosso con crescente violenza.

Ho imparato a controllarmi, sono sicura di me, so cosa devo fare. Gli occhi vacui del mio maestro sono uno sguardo che posso sempre ritrovare, in qualsiasi caos, nel dubbio, nell’euforia del sangue che ribolle mischiandosi alla trama che esige il suo momento di gloria.

- Cazzate -

Quel troglodita inizia a prendere a calci il ragazzo a terra, sconfitto. Una lava incandescente mi monta dallo stomaco e invade completamente qualsiasi residuo di ragionevolezza. Ogni centimetro di pelle brucia come se dovessi polverizzarmi, ora, in una singola spettacolare esplosione irreversibile.

<< La mia allieva, contro la recluta.>>

Un’ondata di odio tracotante nei confronti dell’unico uomo che dovrebbe aiutarmi a non infiammarmi come un cerino che si consuma in un attimo. Si somma alla rabbia che mi monta dentro e non ho idea di come tenere tutto racchiuso entro i confini di un corpo che mi appare fragile come cristallo.
Sento il fuoco scorrermi nelle vene, ha il sapore squisito del potere arcano, e il retrogusto mortifero della frustrazione e del rancore. Mi preparo, punto il mio obiettivo, la mente si spegne.

Quando ritorno cosciente di me sto cercando di prendere a bastonate il barbaro che ride a crepapelle mentre un intero lato del suo corpo è ustionato, un uomo mi tiene ferma e il mio maestro mi grida di smetterla.

Forse è lo sguardo torvo del sacerdote a farmi rinsavire, o forse mi sono semplicemente svuotata. Una sensazione incredibilmente piacevole, l’assenza temporanea di ogni desiderio. Mi fa persino ribrezzo pensare che stavo per ingaggiare un contatto fisico con quell’uomo che mi disgusta profondamente.

Torno al mio posto e mi allontano il più possibile dal cuore pulsante dell’odio che è seppellito lì da qualche parte tra sangue e fango. Osservo gli scontri, apprendo tutto ciò che posso. Non sono ancora pronta, non devo esagerare, la mia ora è immatura.

C’è un tempo per ogni cosa. La passeggiata verso il baratro può essere piacevole come una sera d’estate riempita di melodie festose. La vertigine infine fa sempre ciò che deve. Una calamita più potente di ogni parola non detta.


≑≑≑≑≑

libro_post_3


Rifletto spesso su ciò che voglio essere. Più mi arrovello di pensieri, più il sangue prende il sopravvento scegliendo al mio posto. Non controllo che un briciolo del potere che sedimenta nel fondo di un abisso inesplorato di possibilità.
Mi ritrovo a manipolare le menti altrui e non so nemmeno io dove vorrei realmente portarle. Come il gioco crudele di un felino che stuzzica la sua preda per noia e non le lascia scampo.
Scavo dentro di me e non vedo altro che istinti, ma la mia mente è forte e pretende di avere il controllo.

Devo prenderne atto: inseguo illusioni e desidero plasmare ciò che mi circonda. Una profonda insoddisfazione e inadeguatezza alla vita. Vorrei che il mondo cambiasse perché non riesco a cambiare me stessa.

Forse tutto nasce dalla profondità della tristezza. L’inaspettato entra nel nostro cuore quando siamo ancora indifesi, penetra nella sua camera più interna, ed è già nel sangue.
E noi restiamo lì a chiederci cosa sia stato. Ci si potrebbe facilmente persuadere che nulla sia accaduto, eppure noi ci siamo trasformati, come si trasforma una casa in cui sia entrato un ospite estraneo.
A stento sapremmo dire chi o cosa sia la causa. E’ come se il futuro sedimentasse in noi per potersi trasformare, molto prima che qualcosa accada.

Tuttavia non demordo. Faccio tesoro dei consigli di un uomo potente, che pur avendo contrastato il fato e la morte non ha le risposte alle domande più semplici.
Sfido il mio avversario più temibile, me stessa, scendendo a patti per giocare in contrattacco. Se la mia mente non può dominare, che possa almeno creare i presupposti per indirizzare i miei istinti.

E’ un piano al limite del sensato, ma potrebbe funzionare.
Guardo l’assenza di un volto che si perde in un gioco di nebbie scure e comprendo di essere una volta ancora troppo imprudente. Domande e risposte che si riconoscono come occhi dentro agli specchi. Non esistono scelte facili quando cammini su perenni sabbie mobili. Sabbia bollente.

Lo guardo uscire nella notte e so che anche oggi non avrò pace.

 
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view post Posted on 31/1/2020, 18:50
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Ogni passo ha il peso di mille pensieri aggrovigliati intorno alle caviglie come pesanti catene. Se solo potessero assumere consistenza sarebbero una nube fitta di filo spinato per allontanare il mondo. Invece appaiono come fantasmi di nuvole verso cui la mia attenzione sembra disperdersi, mentre cammino con l’aria assente tra le strade vuote.

Lievi folate di vento gelido si insinuano tra i miei capelli, accarezzando il collo e scendendo lungo la schiena come brividi invadenti a cui non oppongo resistenza.
Ombre silenziose che si stagliano ai lati della strada tremolando disturbate dalle luci delle torce accese. E ombre celate, come foschia dispersa nell’aria stessa che respiro. Fiato caldo sul collo e mani che mi sfiorano, senza occhi da cercare.

Forse sta funzionando, o forse no. Sento il mio corpo irrigidirsi ogni volta che sfioro il confine tra il reale e l’invisibile, consapevole che quel controllo non mi aiuterà a sprigionare la magia a cui anelo.
Arriverà il momento in cui si spezzeranno le corde con cui ad ogni nuovo giorno pazientemente imbriglio la follia del mio sangue stregato. E’ solo in quegli istanti che accadono le meraviglie, seguite dall’inevitabile prezzo da pagare per ristabilire l’equilibrio.
Ogni conquista è una stella che rifulge nel buio schiantandosi contro muri invisibili alzati dalla mia stessa volontà. E tutto intorno l’oblio, che sprofonda come una spirale di cui temo il fondo mentre tuttavia assaporo la vertigine della caduta.
E’ una strana sensazione, l’invadenza del silenzio, la presenza fisica dell’invisibile. Non avevo mai dato il giusto peso al potere mentale che può raggiungere chi danza tra le ombre.
La notte il sonno tarda a venire, parlo ai miei fantasmi che hanno il sapore dei ricordi e dell’assenza, conversazioni dai due estremi della notte, come da spiagge distanti. Un mare di gelide stelle arroganti sul soffitto oscilla tra opposti pensieri.
Mentre rincorro l’oblio della coscienza percepisco un soave bisbiglio che scivola lungo il baratro. Rido della mia agognata solitudine, così presente e così violata.

“Quale solitudine? Lo sai che non si è mai soli. Dovunque andiamo ci portiamo addosso il peso del nostro passato e del nostro futuro.”

Banale. Ma quel peso spinge in giù le spalle mentre drizzo la schiena e sollevo il mento per guardare in faccia il mio destino.
Avevi ragione, tutti quelli che abbiamo ucciso o perduto sono sempre con noi. Ma quel che è peggio è che rimane chi abbiamo amato. Il rimpianto, il desiderio, il disincanto e la dolcezza.
Una solitudine che risuona di denti che stridono, di chiasso e lamenti perduti. Una solitudine infestata dai fantasmi.


Myos


Un mostro. Un uomo. Con un passato, dei sentimenti, forse dei rimpianti. Non riesco a decidere e rimango a guardare, con la meraviglia di un bambino che vede per la prima volta la neve e non sa assolutamente cosa aspettarsi. Ne percepisce la mutevolezza, l’incanto, il potenziale pericoloso. E’ tutto lì davanti agli occhi ma non ne conosce ancora a fondo le conseguenze.
Così scruto il suo volto e mi aspetto di scorgere qualcosa che non avevo ancora notato, troppo distratta, troppo assuefatta all’immagine prestabilita del mio interlocutore.
Il fuoco scoppietta nel camino, è ipnotico e rassicurante, così come le sue parole. D’un tratto mi rendo conto di avere sempre avuto l’ombra della sua mano sopra di me, la vedo allungarsi su coloro che mi circondano e comprendo che sono stata ingenua una volta ancora.

Eppure non è risentimento quello che provo, nè fastidio, nè odio. Neanche quando si accanisce contro l’unica persona che negli ultimi mesi mi ha tenuta appesa disperatamente alla voglia di sentirmi stupida, fragile, potente, umana.
Forse in una situazione diversa avrei perso il controllo, divorata dalla rabbia di veder ferito ciò che per me è prezioso.
Invece mi sorprendo a comprendere, nella percezione di un attimo, mentre gli sento pronunciare quelle parole potentissime, l’esatto motivo per cui lo fa.

E non c’è rabbia, non c’è rancore, solo una profonda accettazione velata di tristezza. E’ un pugno allo stomaco che mi toglie il fiato, ma accuso in silenzio e mantengo il mio posto.
Inizio a vedere la scacchiera da ogni lato, osservo il dispiegarsi delle forze in campo, comprendo i compromessi necessari.

Ed è così che l’uomo ritorna, dopo che il mostro si è manifestato in tutta la sua grandezza, e mi chiede cosa voglio fare, imponendomi una scelta di cui non desidero il peso.
Mi sono illusa di essere fuori da quella scacchiera, ad osservare paziente dalla mia nicchia insignificante. Ma mi è chiaro adesso che sono già nel mezzo, impigliata tra corde invisibili che si stringono più forte ad ogni spasmo del mio corpo.
Non basteranno le fiamme che sgorgano dal mio essere, non servirà urlare, né maledire gli Dei.
Io conosco già la mia risposta, ne percepisco l’amaro sulle labbra e lo assaporo a lungo prima di trasformare quel che sento in un fiume di stupide parole.

La notte è finita, e Zhentil Keep è tornata la sfida di sempre. Monotona e mortale.
Inizio un altro giorno inghiottendo ipocrisie, chiedendomi quanto tempo servirà per alzarsi, uccidere, misurare le tracce e distinguere i morti soffocati da quelli annegati, tra neve, fango, e ginocchia prostrate.
Quanto ne servirà per conquistare isole silenziose, per camminare sull’acqua sfuggente lasciando impronte indelebili.
Sedersi ad un tavolo, odorare pesce fresco, inghiottire vino e consigli per consolarsi.
Svanirà anche l’angoscia di questo tempo in cui tutto è possibile, di questa giovinezza che tutti mi rinfacciano e che io non so comprendere. Passerà l’inverno e si vivrà ugualmente, tra poveri famelici e ventri sazi.

Sopravvivere significa affrontare la mattina e il rumore dei sogni infranti, con un mantello di seta scura che porti addosso la notte, ed un sorriso di ghiaccio che accechi più dello squallido sole.

 
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view post Posted on 7/2/2020, 00:27
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heart


Dopo ogni guerra a qualcuno tocca ripulire. Del resto un po’ d’ordine da solo non si fa.
C’è chi si occupa di spingere le macerie ai bordi della strada, per far passare agevolmente i carri pieni dei cadaveri. C’è chi deve sprofondare nella melma e nella cenere, tra schegge di ferro e stracci insanguinati. C’è chi deve trascinare una trave a puntellare il muro, chi rimonta le porte sui cardini e ripara le finestre.

Non c’è niente di eroico, e ci vogliono anni. Tutta l’attenzione è già puntata verso un’altra guerra e i menestrelli cantano fandonie in terre lontane, senza infamia né lode.
E intanto qui c’è chi, con la scopa in mano a raccogliere rifiuti, ricorda ancora com’era. E qualcuno lo ascolta, annuendo con la testa non mozzata.
Chi sapeva di cosa si trattava deve lasciare il posto a quelli che ne sanno ben poco, forse quasi nulla.

Sull’erba che ha ricoperto le cause e gli effetti, gli errori e i trionfi, c’è chi se ne sta disteso, con una spiga tra i denti, a fissare le nuvole.


A Zhentil Keep non c’è nessuna guerra e molte se ne consumano, in silenzio, tra gli spazi che separano le parole di troppo, negli sguardi sbagliati, tra le illusioni e le false apparenze di quiete.
Talvolta mi accade di non dare peso alle cose, di cercare in volti estranei qualcosa che mi parli di un cielo diverso, di un altro modo di vivere. Non è questione di fidarsi, no. È imprudenza, è desiderio, è voglia di sporgersi oltre i limiti per vedere se è poi così terribile cadere.

Alcune persone hanno sguardi di spine, lupi tra i lupi, giocano a carte scoperte. Altri indossano il manto di agnelli e ci vanno in giro a proprio agio. Ci si trovano così bene che quando è ora di mordere lo fanno con tale debolezza da generare pietà.
È questa reazione che credo di aver visto nel mago. Delusione, forse. O un paterno istinto di protezione e sprone verso un pupillo ancora così acerbo.

“Non hai forse giurato che avresti difeso gli altri membri?”

Una sottile linea scarlatta che demarca il confine tra il credere e il non credere. Labile intercapedine in cui vive l’inquietudine della mia costante estraneità, distante e vicinissima. Un isolamento tra la realtà e il pensiero, che finisce col relegarmi non sopra né sotto alle cose, ma accanto, perennemente accanto.

“La tua passione, il tuo potere, la tua eterna lotta è poesia”

Immagino il suo corpo ardere nelle fiamme. Alte lingue di fuoco che serpeggiano verso un cielo nero di cenere. Nelle mie fantasie non urla affatto. Si consuma nel silenzio più totale, come quello della neve che inizia a cadere per la prima volta all’inizio dell’inverno, poco prima dell’alba.

“Lui aveva chiaro ciò che voleva, ma non ha avuto il fuoco per prenderselo. Voi invece siete una fiamma perpetua.”

Desidero unicamente che sparisca dalla mia vista, che si disintegri e mi lasci un cuore da calpestare affondandolo nel fango.
E invece resisto, in quella maledetta intercapedine.

So perfettamente che se trascorrerà questa notte terribile lontano da me, domani non avrò più questo fuoco impietoso tra le dita. Rimarranno soltanto le ceneri in bocca, col loro gusto amaro. Ceneri di un fuoco che non è mai divampato.

“Avete mai ucciso a sangue freddo?”

“Non qualcuno a cui tenevo.”

Devo molto a quelli che non amo. Il sollievo con cui accetto le loro azioni e le loro mancanze. La gioia di non essere io il lupo dei loro agnelli. Mi sento in pace con loro, e questo l’amore non può darlo né riesce a toglierlo.
Non devo stare ad aspettarli alla finestra, paziente, come una quercia secolare nel mezzo di un bosco. Capisco quel che l’amore non capirebbe. Perdono ciò che l’amore non perdonerebbe mai.

“Avete capito perché gli è stato chiesto di compiere quel gesto?”

Rimaniamo soli e l’ultima scintilla si è spenta. Restano soltanto due gocce di sangue a macchiarmi il vestito. Una volta ancora la mia sanguigna furia cede il passo all’astuzia del mio maestro.
Ma dove non si compie la rabbia, l’odio sedimenta. In disparte, lontano persino dal mio stesso sguardo, dalla mia volontà.

Dopo ogni guerra a qualcuno tocca ripulire.

Sulla terra che avrà ricoperto le cause e gli effetti, gli errori e i trionfi, ci sarà chi se ne starà disteso, con una spiga tra i denti, a fissare la cenere.


≑≑≑≑≑


Un vento sferzante che si nutre del mare. Soffia libero e non trova ostacoli. In nessun altro luogo ha l’odore che ha qui. Un misto di ricordi, nostalgie e speranze. Non avrei mai ritrovato quest’isola se non fosse stato per lui. Ed ora che mi volto a guardarlo controvento, non c’è la figura che era solita riempire i miei sogni.

Immagino che funzioni così la vita. Perdiamo tasselli per strada, ed andiamo per il mondo proclamando scopi solenni, mentre invece cerchiamo nuovi frammenti da far combaciare in quei vuoti.

È bello quaggiù. Una bellezza semplice, di quelle che si dimenticano facilmente mentre ci si perde a rincorrere la vita tra vie affollate e giochi di potere.
Una volta qui mi è stato detto che potevo essere chi volevo. E oggi chi voglio essere?
Lui prende le distanze e poi le annulla. È uno strano gioco di cui non voglio ancora conoscere la fine.

“Puoi fidarti di lui, ti aiuterà”

Io non mi fido di nessuno, ma lo so bene che mi aiuterà. Del resto ciò che gli chiedo è di essere sé stesso. Un alito di angoscia nella notte, un’ombra sinistra che striscia al mio fianco, il pugnale che si infila nel fianco quando non lo posso vedere.
Ma stavolta lo vedo, mentre sanguino copiosamente, prostrata a terra, lo vedo. E infine il fuoco fluisce bollente nelle vene e si sprigiona come un grido di vittoria.
Spingermi oltre il limite è l’unica soluzione che conosco. Una volta ancora, ha funzionato.

“Credi che mi piacerebbero i tuoi occhi?”

La stanza è impregnata da una sottile nebbiolina fumosa. Un odore acerbo ed intenso, nero di Maztica. Ho fumato a lungo, seduta a questo tavolo senza fare niente, assolutamente niente, se non cercare di calmare i pensieri.
Osservo la rosa. Quanti giorni sono passati? Inizia a sfiorire.
Tra tutti i prodigi magici di cui vado tanto fiera, non so fare una cosa così semplice come preservare una rosa. Renderla di cristallo, magari, o eternamente illusoria. Così, solo per poter continuare a guardarla e chiedermi cosa volesse dire.

Se fossi una persona diversa, la metterei in un vaso con dell’acqua e accetterei di godere della sua bellezza per il tempo che mi è dato. Invece mi alzo, afferrandola, e vado di fronte alla tela sul cavalletto.
L’impasto di colore nero è ancora fresco, lo prendo tra le dita per scaldare il pigmento, mentre osservo la sagoma informe che mi fissa senza occhi.
Uno ad uno strappo i petali vermigli, mischiandoli al nero, sfregando le dita sulla tela, ampliando la macchia scura sempre più informe.

In qualche modo capisco che non sono in grado di accettare le perdite, mentre condanno la rosa a un diverso destino, pur di non doverla vedere appassire.


paint


Da qui si doveva cominciare:
il cielo.
Finestra senza davanzale, telaio, vetri.
Un’apertura e nulla più,
ma spalancata.

Non devo attendere una notte serena,
né alzare la testa,
per osservare il cielo.
L’ho dietro a me, sottomano e sulle palpebre.

Il cielo mi avvolge ermeticamente
e mi solleva dal basso.
Perfino le montagne più alte
non sono più vicine al cielo
delle valli più profonde.

In nessun luogo ce n’è più
che in un altro.
La nuvola è schiacciata dal cielo
inesorabilmente come la tomba.

Il cielo è onnipresente
perfino nel buio sotto la pelle.
Sono una trappola in trappola,
una domanda in risposta a una domanda.

La divisione in cielo e terra
non è il modo appropriato
di pensare a questa totalità.

Permette solo di sopravvivere
a un indirizzo più esatto,
più facile da trovare,
se dovessero cercarmi.


Miei segni particolari:
incanto e disperazione.



(W. Szymborska)
 
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view post Posted on 27/2/2020, 23:02
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silll


Le rive del Neverwinter sono costellate di piccoli fiori azzurri e gialli, che sfidano la neve con fragili corolle e morbidi steli. Le acque miti del fiume, da cui prende il nome il Gioiello del Nord, creano uno splendido paradosso con il gelo che respiro tutto intorno.
Un halfling di Leilon mi ha raccontato che secondo la leggenda in queste acque vivono degli elementali del fuoco. La scorsa notte le ho fissate a lungo, godendo del loro mite tepore, ma non ho scorto altro che riflessi distanti di fredde stelle.
Ci siamo accampati vicino al fiume per sfruttare questa piccola magia, ma l’inverno si fa comunque sentire sulla pelle. La punta delle mie dita è gelida e abbiamo finito le scorte di stoffa per rattoppare i guanti. La stagione teatrale non sta andando benissimo negli ultimi tempi, tuttavia Erik è convinto che qui faremo un sacco di soldi appena inizierà la primavera. Ora è nella sua tenda che scrive le nuove sceneggiature e non mi azzardo a disturbarlo, resto nel mio angolo a scarabocchiare il quaderno osservando di tanto in tanto il nano che si prodiga per ravvivare il fuoco che scalderà la nostra notte nomade.
Se sollevo lo sguardo scorgo le mura di Neverwinter svettare in lontananza, massicce e solenni. Mi chiedo come siano i suoi mercati multirazziali, le taverne dei nobili, i quartieri malfamati...sempre che ce ne siano? Forse nei prossimi giorni lo scoprirò con i miei stessi occhi e finirò col detestare anche questa città aggiungendola ad una lunga lista.

...

E’ già la terza volta che Jenna mi chiama con quella sua voce gracchiante. Pensa di potermi comandare solo perchè ho sedici anni e non mi ribello quasi mai. Se solo sapesse con quale viscerale pazienza seppellisco dentro di me l’odio che provo per tutti loro. Beh, quasi tutti. Erik mi appare ancora bello come il primo giorno in cui l’ho visto a Zhentil Keep. Tutt’oggi mi chiedo cosa starei facendo, adesso, se non avessi deciso di seguirlo. Quando questi pensieri mi colgono è come se Zhentil avesse il potere di allungare la sua nera mano fino a qui, agguantando il mio cuore e facendomi sentire una tremenda mancanza di un posto che non esiste, ma che vorrei poter chiamare casa. Che sensazione bizzarra...continuare a vedere il luogo in cui pensi che potresti essere salvo, ma essere conscio di non poter fare niente per raggiungerlo.

...

Tra poco faremo le prove generali del nuovo spettacolo. Come al solito mi è toccato occuparmi di ridipingere le sceneggiature, e durante lo svolgimento non avrò altro ruolo che quello di mettere in scena trucchetti magici da contorno alla narrazione. Del resto non mi importa affatto di mettermi in mostra, come invece accade per la maggior parte delle persone di questa compagnia.

Come quella ragazza che ci ha raggiunto da Leilon per venire con noi a Neverwinter. Sembra che si unirà a noi solo per qualche tempo, mentre staremo in zona. Ha la pelle mulatta e un viso difficile da dimenticare per la sua peculiarità intrigante, una donna dell’est dagli occhi allungati ma molto espressivi. Possiede una voce che incanta, e non soltanto quella...sembra che tutti non facciano altro che parlare di lei.
Ieri mi ha chiesto perché tengo i capelli legati e non uso un po’ di trucco per far risaltare i miei occhi. Credo volesse essere gentile, ma la risata di Erik a quelle parole mi ha scossa in un modo che non saprei definire. E’ possibile che sia gelosia?

La osservo pettinarsi i capelli sciolti seduta sulle rive del fiume, specchiandosi nelle sue placide acque. Canta una melodia sommessa che sembra rendere ancora più dolce l’animo della sera, portatore di tregua dal trambusto odierno.
Mi siedo accanto a lei senza dire niente, e la osservo con una insistenza che darebbe fastidio ai più. Ma lei mi sorride amabilmente puntando su di me uno sguardo criptico, che lentamente si scioglie e sembra sorridermi allo stesso modo delle sue labbra. Per un istante ho la sensazione che mi stia detestando, ma che sia in grado di mascherarlo così bene da farmi quasi smaniare per lei.

Quando torna a guardare il fiume io resto ad osservarla. I lineamenti esotici ed armonici del volto, le forme femminili del corpo semiscoperto, e quei capelli corvini così lucidi e fluenti. Basterebbe soltanto la sua visione a far girare decine di teste, eppure la voce...quella voce è il vero inganno maliardo da cui sembra impossibile fuggire.

...

Le prove sono andate bene. Ero sicura che Erik avrebbe voluto festeggiare, aprendo una bottiglia del suo vino preferito e condividendola con me. Invece mi ha congedata in tutta fretta chiudendosi nella sua tenda per riposare in pace. Ho creduto che fosse semplicemente stanco, ma qualcosa dentro di me mi rende inquieta e non mi lascia chiudere occhio. Una sensazione, latente ma corrosiva, che qualcosa mi stia completamente fuggendo di mano nella mia giovane ingenuità.

Sono uscita di nuovo nella notte per fare una breve passeggiata, cercando quiete nel silenzio delle stelle, e trovando invece soltanto un buio assordante. Mentre passeggiavo tra le tende chiuse e gli schiamazzi degli ultimi ubriachi ho visto una figura sgusciare fuori dalla tenda di Erik. Seguirla è stato quasi un riflesso incondizionato, mentre sentivo salire in me un fuoco in grado di ustionarmi le viscere e arrampicarsi lungo il mio petto fino a impedirmi persino di respirare.

Ho seguito la figura fino alle rive del fiume, solo ora riesco a vederla in volto, mentre si gira incontrando il favore di un tenue raggio di luna. E’ quella mulan dalla pelle perfetta con gli occhi da gatta. Lei mi fissa tranquilla, ignara che l’ho seguita, ed io non riesco a fare altro che provare a replicare il meraviglioso sorriso che le ho visto sulle sue labbra ieri, tanto amabile quanto necessario per celare la mia profonda rabbia, soffocandola. Probabilmente sta funzionando, ma sento la pelle farsi sempre più calda, come se un fiume di lava nato dal nucleo del mio stesso essere stesse cercando di straripare ovunque attraverso i pori della mia carne.

In questo esatto momento capisco con chiarezza disarmante che anche lontana da Zhentil Keep, e dai soprusi e gli inganni in cui ho trascorso la mia infelice infanzia, non troverò altro che ulteriori menzogne e tradimenti.
E’ così cristallina questa consapevolezza improvvisa, che inizio a sviluppare una certezza rassicurante: quella di non avere più alcunché da temere. Come se la vita ora mi sembrasse troppo detestabile per avere un valore, per poterci ancora investire una qualsivoglia speranza. Ho la sensazione che qualsiasi sforzo mi sarà inutile, ma in questa incapacità di cambiare il mondo io posso diventare potente. Un essere che non possiede nulla da perdere.

Lentamente le vado incontro, mentre mi chiede con la sua carezzevole voce se voglio sedermi con lei a fumare un po’ di tabacco. La sua sinuosa figura si staglia contro un panorama fiabesco: il Neverwinter scorre silenzioso alle sue spalle, coperto da una leggerissima foschia notturna illuminata dallo spicchio di luna.
Oscillo tra il desiderio di fermarmi a dipingere l’immagine così perfetta che ho davanti, e l’impulso distruttivo di disintegrare qualsiasi rimasuglio di quella donna.
Deve essere così che si sentono i maghi potenti, mentre lasciano crescere sui propri palmi un potere arcano inarrestabile, ancora incerti se usarlo o meno, e contro chi. Il dolce piacere della sospensione di ogni coscienza che precede le azioni più truci degli uomini.
Posso farlo, oppure no. E’ tutto nelle mie mani adesso, e nel mio sangue.

Tutti questi pensieri prendono forma nella mia mente mentre non trascorre che un attimo. Le sono vicina adesso, e sento il suo inebriante profumo. Sollevo le mani per prenderle la pipa che ha tra le labbra, ma le mie dita finiscono sul suo meraviglioso viso e sprigionano tutta la mia rabbia senza che io possa controllarla.
Mi osservo come se fossi fuori da me.
Lei urla, e la pelle del suo viso si contorce tra le fiamme annerendo raggrinzita. Forse la spingo, o forse sta solo cercando di scappare da me. Mentre l’odore di carne bruciata mi invade le narici la guardo scivolare nel fiume e andare a fondo nella notte.

Per un lunghissimo attimo assaporo l’amara sensazione d’essere niente. Soltanto un anello di cristallo nell’infinita concatenazione di eventi più grandi di me, e...di lei.
Ma lei ora non è più niente, nemmeno cenere. Soltanto l’eco del suo grido straziante di poco fa rimane come traccia della sua esistenza, così diverso dal suono soave delle sue canzoni.

Improvvisamente mi è chiaro che non posso più restare, mi avvolgo nel mantello e punto dritta a nord. A quanto pare scoprirò presto cosa riserva per me Neverwinter.


drown


≑≑≑≑≑


Mi sveglio gettando di lato le coperte con un gesto infastidito. Sento il mio corpo bollente, come se fossi afflitta da una febbre di fuoco che mi divora quando sono incosciente. Passo una mano sulla nuca sudata e mi guardo intorno nella penombra. La fiala sul comodino è ancora piena per metà, e mi rammarico di non averne approfittato prima di mettermi a dormire. Sogni splendidi, sonni profondi...non certo come quello di stanotte. Un ricordo travestito da incubo, che talvolta torna a farmi visita credendo di potermi torcere la coscienza.

Mi alzo avvolgendomi nella leggera vestaglia di seta e vado di fronte al cavalletto. Un abbozzo di figura inquietante che regge i fili di alcune confuse marionette. Forse non avrei dovuto dipingere fino a tardi, inquinando la mia mente con pensieri angoscianti prima di coricarmi. C’è qualcosa in questo disegno che mi è stato commissionato, che riporta a galla una parte di me con cui rifiuto di fare i conti.
Vorrei essere sulla “mia” isola ora, ad ascoltare il vento e liberare i pensieri. Una splendida sensazione di leggerezza, tanto più apprezzata conoscendone la natura breve e passeggera. Un lusso da concedersi di tanto in tanto, solo quando persino respirare sembra diventato impossibile, tra le mura ed i doveri di questa città.

Mi vesto con calma, rinfrescandomi il viso, e siedo alla scrivania gettando un’occhiata ai miei appunti, mentre passo la spazzola tra le ciocche aggrovigliate dalla notte agitata.

Tre colpi alla porta.

Non ho molte visite di solito. Sorrido stupidamente, perché una parte di me sa già cosa troverà aprendo la porta. E’ quella parte di me che non sembra fatta di fuoco, ma di aria leggera e frizzante, di un niente frivolo, di desideri e sogni che probabilmente non si avvereranno mai. Tuttavia l’altra parte di me coesiste, ed è densa come pece, bollente come fiamme, e corrode lentamente, pezzo per pezzo, quegli stessi desideri.
Un paradosso di dualità, una mezzosangue, una sorta di funambola.

...

La luce flebile delle candele è sufficiente perchè il mio sguardo venga catturato da quell’insignificante punto sul volto che fino a poco fa osservavo con dolcezza. Un punto che d’improvviso si rivela essere una crosta spessa, che sembra espandersi, come qualcosa di malvagio che si riversa tutto intorno. Qualcosa da cui non riesco più a distogliere lo sguardo, che mi attira, che voglio toccare, tormentare. Come una porta che cerca di chiudersi mentre io voglio attraversarla ad ogni costo, consapevole che dietro di essa non ci sia nulla di buono.

Nel mentre sorrido, così come ho imparato a fare in quel giorno lontano, fingo che vada tutto bene solo per prendere tempo mentre mi porto sull’orlo del precipizio, pronta a spalancare quella maledetta porta. Come quel giorno con la donna mulan, come oggi con l’uomo che pensavo volesse credere in me.

E la crosta si stacca, rimane sotto le mie unghie, odora come il cerone che avrei dovuto imparare a riconoscere, dopo tutti quei mesi a teatro.
Non so chi ho davanti, ma sono certa che non sia l’uomo a cui avevo concesso fiducia, sforzandomi di ottenere la sua, calpestando il mio egoismo, la mia curiosità, persino i miei desideri.

E mentre il volto prende una forma che mi accorgo di riconoscere, sento gli occhi bruciare come se dovessero contenere tutte le lacrime calde che non mi concederò mai di versare.
La rabbia è incontenibile, eppure non esplode. E’ nella mia voce, nei miei gesti, ma non arde. Una fiamma soffocata da pesanti ceppi che prima o poi la uccideranno.

Lui ha uno sguardo triste, mi colpirebbe se fossimo in altre circostanze. Ma ora c’è solo odio, odio latente, che corrode verso l’interno invece che fuoriuscire. Le mie labbra si muovono e pronunciano l’incanto meno prevedibile. Non so perchè lo sto facendo, voglio solo che se ne vada, il più lontano possibile da me.
E lui obbedisce, contro la sua volontà. Sparisce nella notte, esattamente come quella prima volta, quando era ancora una porta chiusa e non avevo alcuna intenzione di attraversarla.


marionette

≑≑≑≑≑


Si dice che vi sia una piccola isola abbandonata tra le Moonshae, dove un tempo sorgeva la casa di un pescatore che viveva di doni del mare coltivando il suo orticello. Quando morì la terra continuò a produrre frutti grazie al clima mite e bonario, a prescindere dalla presenza dell’uomo.
Una notte deve esser accaduto qualcosa di inspiegabile a quella piccola isola dimenticata dal resto del mondo. Adesso la sua terra è completamente nera, bruciata da fiamme che sembrano essersi abbattute con crudeltà spietata ed inspiegabile.


“Una torsione d’agonia e terrore, il male che ognuno di noi provoca.

Solo cenere, fuoco di parole nell’aria, terra che si contorce gemendo, ferita.

Indifferenza criminale e avidità offesa, come lapilli incandescenti rigetto lacrime di fuoco.

Nauseata e delusa, affondo nel fango incandescente scavando argini fragili ed impotenti.

Sospiri affannosi di fuoco dal petto, vortici liberatori d’un uragano in piena.”



Edited by Aurin - 28/2/2020, 02:32
 
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view post Posted on 19/3/2020, 18:40
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- Lasciatemi così. Ho fatto tutto il giro ed ho capito. Il mondo si legge anche all’incontrario. -


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liuto_3
♪♫♬musica♬♫♪


Le dita raggrinzite dalle unghie acuminate, di un giallo opaco e mortifero, si posano sui tarocchi accarezzandoli con una dolcezza che si riserverebbe solo al più raro degli amanti. Tuttavia le carte appaiono consunte, ingiallite, erose dal tempo e dalle speranze che centinaia di sconosciuti vi hanno posato sopra, sfiorandole.

La voce della megera è aspra e rugginosa, lascia addosso una sensazione di sporco, che pure il mio olfatto non coglie. Dispone le mie carte sulla tovaglietta ricamata di fili d’oro e mi guarda solo di sfuggita, come se nessuna delle risposte ai miei quesiti potesse realmente provenire da me.

Quando le lascio la moneta di platino scintillante sul tavolo, per la prima volta mi fissa intensamente negli occhi.

“Le compro tutte. Hai un minuto per pensarci.”


* * *


Richiudo con calma la porta di casa, assicurandomi di girare la chiave almeno per quattro mandate. Poi cammino avanti e indietro, nello spazio angusto, non so quante volte. Infine mi fermo di fronte al pezzo di muro più spoglio che resta, ed osservo le pietre cercando una geometria che ancora non possiedono.

Abbasso lo sguardo sul mazzo dei tarocchi che ho in mano, scorro le carte una ad una, le accarezzo anch’io, con meno dolcezza di quanta ne metteva lei, incurante dei loro nomi e dei loro significati. Guardo soltanto le figure, disegnate da chissà chi, e ne scelgo una.

“L’appeso”

Ho deciso che sarà la prima del mio tavolo, che in realtà è un muro. Prendo un chiodo mezzo arrugginito e la attacco con meticolosa cura. Tutto il vuoto attorno mi infastidisce, ma devo imparare ad avere pazienza.

Nella mia mente si rincorrono pensieri contrastanti mentre osservo il condannato appeso, torturato forse? O destinato ad espiare le proprie colpe attraverso la sofferenza di una morte lenta e dolorosa? Passivo, indolente, sacrificio inutile.
Una posizione fissa che s’oppone ai cambiamenti, che penzola sull’orlo di un abisso sconosciuto verso il quale null’altro cade se non il suo sguardo.
Piego appena il capo, immaginando di cambiare prospettiva. Il significato si capovolge, la forma rimane la stessa. Mi accorgo di desiderare follemente quella duplice, semplice, verità.

Perché quando io mi fermo, e mi esamino nell’intimo, divento pazza. C’è dentro di tutto, e io non so quale direzione prendere, trascinata come una pagliuzza contro orizzonti troppo lontani perché li possa raggiungere.

Ripongo il resto del mazzo in un cassetto e mi giro verso l’altra parete, ben più caotica. Forme scure e matasse di colore mi osservano protendendosi dalla tela bianca. Grovigli di linee senza uno scopo, nate da una consapevolezza che non può avere voce.
Impossibili da dipanare, difficili da reinventare. Preferisco che ogni fibra si spezzi e vinca la furia, concedendomi un’ingorda pausa dal pensiero.

Ma il nero rimane lì, immobile come l’appeso, a fissarmi senza occhi, a parlarmi con la voce della mia coscienza.
Abbasso lo sguardo sulla mia mano, pulita, candida. Eppure anche adesso riesco a vedere la stessa macchia che ho cercato di spiegare a lui, in un tentativo disperato di fonderla con la sua stessa pelle, per poterne provare anche solo un flebile sollievo, un defaticamento da tutto il suo peso.

“Ho deciso di cercare mia madre.”

Il ricordo del suono di quelle parole, che mai avrei pensato di pronunciare, rimbomba nella mia testa togliendomi il respiro. Devo essere impazzita.

…E se…

Se potessi girare la carta dell’appeso? Se scavando là sotto, oltre il confine del tarocco, nell’abisso di melma che certamente lo attende con spasmi mefitici, io trovassi la forza che mi manca?

L’opposto della paura, la vera essenza dell’odio che provo da quando ho memoria.

Se dovessi anch’io sacrificarmi, mettermi a testa in giù e osservare, per poi sollevarmi ancora, libera una volta per tutte dalle catene di un passato che mi grida da ogni specchio, che mi afferra le caviglie e mi costringe a trascinare una metà di me che vorrei rinnegare?

Non hai bisogno di una madre Silerah, tu sei figlia di un soldato zhent. Crescerai forte e orgogliosa, bambina mia.”

Il silenzio si riavvolge come la marea, percorrendo a ritroso i miei pochi anni, mettendo a nudo i ciottoli e le conchiglie e tutti i relitti ammaccati della mia vita. Ed io, nel mio corpo di meticcia non ancora donna, racconto alle stelle i miei problemi e reprimo poteri che mi consumano.
Prego un Dio lontano che non comprendo, con parole che non hanno alcun reale significato per me, ma mi aiuta a prender sonno la sera, anche se mi terrorizza questa cosa oscura che dorme in me. Maligna.

“Ti farò un dono, ma è molto importante che tu rifletta bene su ciò che rappresenta.”

Sono una strega, e sono una donna che è madre di sé stessa. Chi sia la causa scatenante dell'uragano non importa. Non importa la sostanza, non la fonte, ma il ritmo, il ritmo indemoniato.

Oggi disperazione, domani entusiasmo, amore, nuovo gettarsi anima e corpo, e il giorno dopo, di nuovo, disperazione. E tutto questo in presenza di un'intelligenza acuta, fredda, cinica.

Le cause scatenanti di ieri oggi vengono derise in modo spiritoso e crudele. Come una grandissima stufa che, per funzionare, ha bisogno di legna, legna, legna…e la qualità della legna non è molto importante.

Finché il tiraggio è buono, tutto si trasforma in fiamma.


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view post Posted on 23/3/2020, 17:30
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♪♫♬musica♬♫♪


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La notte è splendida e gelata: la quiete lunare illumina debolmente la bruma che invade la boscaglia e le ombre degli alberi si allungano ai margini della via. Deboli fiaccole accese nella piccola radura cimiteriale a ridosso della montagna illuminano tante lapidi diverse, vessilli della vanità delle illusioni dei mortali.

“Siamo qui oggi per commemorare un eroe…”

Più mi soffermo a scorrere lo sguardo sulla varietà dei versi celebrativi incisi sulle pietre rovinate, e più sento crescere la voglia di ridere. Ridere a crepapelle, come se non ci fosse alcun domani, alcun significato oltre il puzzo di questo luogo di morte. Come se non ci fossero loro a guardarmi severi.

Invece non rido. Ascolto le loro parole, le lascio fluire attraverso di me, imbrattandole di tutta l’oscurità che riesco a portare.
Non ho più alcuna voglia di ridere. Penso a mio padre che è ugualmente sotto terra, che non ha una tomba, che non sarà mai celebrato. Eppure i vermi banchettano col suo corpo e la mia rabbia cresce, di pari passo con l’orgoglio che leggo negli occhi dei soldati. E’ possibile ammirarli ed odiarli al contempo?

“Lo so a cosa stai pensando.”

Per un attimo mi assale la paura, non di morire o di fallire, ma una paura più grande, lo spettro stesso dell’esistenza nefasta che incombe su ognuno di noi col suo fardello carico di sventure, perdite, dolore.

La dozzinale paura di dover rinunciare a un’abitudine, perseguitata da un qualche sortilegio che mi lega intimamente a qualcuno dal quale vorrei al tempo stesso liberarmi, per non rischiare di soffrire ancora.


≑≑ II ≑≑

mago


Forse le prigioni che crediamo di desiderare sono le peggiori e le più infime. Ma ci ostiniamo a sceglierle, per qualche oscura ragione che sembra lenire il nostro animo nel momento stesso in cui cediamo a vincoli dolorosi.

Ogni giorno perdo uno scorcio di sole.
L’età acerba si protende verso la terra,
mi ancora a fondo come un macigno,
mi seduce, mi trascina e poi tracima.

Polvere alla polvere, tempo che scorre,
speranze che esondano sulla mia fretta,
attimi che perdurano sulla mia calma.

Ogni giorno perdo tutto:
i significati, le velleità del buio,
gli sbagli, gli abbagli, le rime.

Ogni giorno mi ritrovo:
l’elemosina del tempo, l’ansia nel petto,
la meraviglia negli occhi, il sale sulle ferite.

Che orrore mi fa l’idea d’esser inutile,
ben istruita a capo chino, piena di promesse,
sbiadita verso un’età indifferente.

Che sollievo la neve candida sulla pelle,
acqua che si scioglie e bianco che permane,
come le promesse in cui non posso credere
come il tempo che non ci darà ragione.


Ogni giorno un sottile strato di polvere si accumulerà sul fondo, come il tempo che ci sfuggirà avvicinandoci alla decadenza. Ogni giorno un po’ di pulviscolo evanescente permarrà nell’aria, come le carezze impalpabili delle parole che ci diremo.

Quando sarà scesa tutta ti aspetterò ai confini del mondo.


clessidra2

 
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