Faerûn's Legends

La Meraviglia e la Furia.

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Il Saggio Jolron
view post Posted on 11/2/2024, 02:03 by: Il Saggio Jolron
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Squartatore di Troll

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La spessa porta in legno si apriva e si chiudeva senza emettere un suono, un cigolio, un lamentoso stridere del ferro dei cardini. Oliata con meticolosa cura scivolava nel suo alloggio con la facilità con cui di solito si aggancia un ciondolo al collo di una bella donna.
Teneva gli occhi aperti, non sapeva neppure da quanto.
Certo era che negli ultimi giorni non aveva dormito per niente bene.
Ai piedi del suo letto giaceva la pesante cassapanca che già faceva fatica a chiudersi prima che il sovraffollato spazio fosse occupato dalla sua corazza riversata là dentro alla meno peggio.
Solo l’elmo era rimasto fuori dal mucchio disordinato che invece giaceva dentro.
Poggiato sul legno scuro del coperchio, faceva bella mostra di sé, e chiunque vi passava vicino lo guardava con reverenza e rispetto.

L’elmo dell’eclissi.

Il significato di quell’oggetto era profondo: indossato da uno dei più grandi avversari che la Costa della Spada aveva avuto negli ultimi anni, era stato donato all’Artefice che si era reso responsabile della creazione della Cella che aveva accolto la Vergine dell’Eclissi all’atto della sua brutale esecuzione.
Non ne andava fiero.
Però era grazie al suo lavoro che la guerra aveva avuto infine una svolta positiva, e questo lo riempiva di orgoglio.
Il Capo della Forgia lo aveva accompagnato da sempre, da quando era ancora un imberbe e scalmanato adolescente per le vie della splendente, dove correva scalzo come tanti altri ragazzini nei vicoli più lontani dallo scintillante centro cittadino.
Poi l’incontro con il clero, la proposta fatta alla sua famiglia di prendersi cura di lui.
Il lavoro alla forgia.
Le preghiere.
L’addestramento.
L’arte dello scudo.
La tempra alla forgia.
E la meccanica d’arma.
Le idee.
Il decimo lingotto della sua prima paniera di fusione offerto al tempio di Waterdeep. Un ferraccio dolce e brutto, ma che al tempio accolsero come se fosse un’opera grandiosa.
E la fiducia.
La speranza.
La fede.

Come gli anelli di un usbergo, tutta la sua vita era una conseguente conferma di quanto la Meraviglia avesse fatto e avesse dato per lui.
E di come lui poteva dare e fare per la Meraviglia.

Almeno questo fino alla rovinosa partenza per il Thar.
Accontentava sempre le richieste di Scintilla con la faciloneria di chi è sempre riuscito in tutto, nella vita.
Non era mancanza di visione, arguzia o lungimiranza.
Era un dannato eccesso di fiducia in se stesso.
Complici gli innumerevoli successi della sua carriera clericale e le vittorie riportate sul campo contro i Portatori della Furia.
Nessuno era mai riuscito nell’impresa di valicare il suo scudo.
Nessuno era mai riuscito nell’impresa di metterlo in ginocchio.
La sua maestria alla forgia, la sua imponente stazza ne facevano un colosso corazzato che attraversava il campo di battaglia pervaso dalla benedizione del suo patrono; Gond, il Capo Artefice, il Portatore di Meraviglia. Colui che lo ispirava alla forgia e lo guidava nelle decisioni.
Almeno questo fino alla rovinosa partenza per il Thar.

Non indugiò molto sulla leggerezza che ebbe nella organizzazione frettolosa del viaggio.
Avrebbe rifatto le stesse scelte e per gli stessi motivi.
Se non che si trovava ora ad aver visto la Furia.
La Furia, quella vera.
Non le parole a vanvera sulla bocca degli squinternati fanatici che scorrazzavano più o meno innocui lungo la Costa della Spada.
La Furia, quella vera.
Non la tracotante ira di un elementalista che, emulando il signore delle tempeste ma con i miseri mezzi a disposizione dei mortali, si trovava a doversi arrestare dinanzi a lui.

Il confratello Artefice che rispondeva al nome di Jolron Joanton e che si fregiava del titolo di Saggio.
L’armaiolo che aveva dato il filo alle più letali armi che fosse possibile trovare in giro per il Toril.
Il metallurgo che piegava il Ferro Vivo laminandolo in corazze così flessibili e robuste da essere desiderate e ambite da molti.
Il fabbro della Forgia delle Meraviglie del Capo della Fucina, capace intercedere per benedire le proprie creazioni per staccarle dalla massa nella quale avevano visto la loro lucente nascita.

Tutto questo era vero. Tutto questo lo riempiva di gioia e di orgoglio.
Fino alla rovinosa spedizione nel Thar.

L’immagine dello scudo piegato sulla lanceolatura e dell’elmo dell’eclissi ammaccato avevano lasciato un segno profondo non tanto nella sua sicurezza, quanto nella sua consapevolezza.
Da un lato era sicuro di sé quanto lo era prima.
Non poteva e non doveva essere la prima sconfitta subita a trasformarlo in pavido; aveva affrontato tutto con ottimismo e coraggio, ed era certo che avrebbe continuato ad inanellare vittorie una dopo l’altra, nel nome di Gond e per il nome di Gond.
Eppure, qualcosa era cambiato.
La consapevolezza.
La dolorosa illuminazione che la Furia non è solo nemica della Meraviglia.
Ma ne è l’antitesi.
Così come la Meraviglia anima gli uomini ispirando la creazione e guidando ognuno alla protezione e al sostegno di tutti, così la Furia anima gli uomini ispirando la distruzione e guidando ognuno nella sua arida, pericolosa individualità.

La Furia non era una nemica della Meraviglia.
La Furia è l’antitesi della Meraviglia, la sua nemesi.
Ed il compito ultimo della Meraviglia doveva essere per forza quello di distruggere la Furia. Ovunque. Sempre. Con qualsiasi mezzo.

Per la prima volta dalla rovinosa spedizione del Thar, il Saggio Jolron rimise i piedi a terra e scese nella sala comune.
I suoi confratelli, Gibilin prima di ogni altro, lo accolsero come se nulla fosse accaduto, forse per non gravare sul suo animo già gravato dal peso dell’accaduto.
Guardò ognuno con un fare fiero, consapevole e addolorato.
E camminò fino alla stele del tempio, istoriata delle meraviglie del Capo.
Vi posò la mano sopra, come tante altre volte aveva fatto, e come tante volte aveva fatto, alzò gli occhi al soffitto del tempio per parlare con il Capo in persona.
E poco importava se ad altri sembrava che lui parlasse da solo.
Magari il Capo era un tipo impegnato e non rispondeva sempre.
Ma il Saggio ne era certo: il Capo era sempre pronto ad ascoltare.

“Eccomi qua, Capo. Ho pensato molto. Ho immaginato che le cose non fossero andate esattamente come tu volevi, come avevi pianificato. Ammetto che è stato duro.”

Il Saggio mosse la mano sulle incisioni a seguire, mentre non smetteva di pregare il Capo della Forgia con quella sua sincera, onesta e incrollabile fede che l’aveva sempre contraddistinto:

“Però ho pensato anche che le cose siano andate esattamente come tu avevi previsto. Io ho capito che non mi hai tenuto qui sulla Costa della Spada perché io vivessi al sicuro. Mi hai lasciato tempo in questo posto pacifico perché io avessi la possibilità di temprarmi e prepararmi alla Furia. L’ho vista. Ho capito cosa è. Ho scoperto sulla mia pelle perché la ostacoliamo con ogni mezzo.”

Chiuse la mano a pugno e la puntò sulla stele del tempio, con un fare solenne. Enorme, alto, imponente, ingombrante. Solo il capo era chino in una silenziosa ammissione di devozione al suo patrono.

“Sono pronto”.
 
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