Faerûn's Legends

Posts written by Aurin

view post Posted: 15/5/2020, 19:31 Il Canto dell'Odio - Le leggende di Faerun

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Attraverso la roccia illusoria, nei meandri della montagna, si cela un luogo di confine che fino ad oggi era soltanto inchiostro su una mappa. Inesplorato, ostile, resistente alla conquista di coloro che nel nome del tiranno reclamano terreno. Soldati dal destino ignoto, pedine sacrificabili ma temprate dalla fede, come un’ossatura d’acciaio sotto la pelle, un martellare continuo che costringe ad osare, sempre di più.

“Bane domina!”

Cunicoli angusti, metallo che stride, sangue che impregna la terra, vegetazione feroce. Sono tutti qui con me, ma non sono qui per me. Combattono perché non conoscono altra strada che la prevaricazione, avanzano perché fermarsi significa perire. Noi non possiamo essere deboli, noi siamo figli del terrore, del terrore ci nutriamo e nel terrore viviamo.
Cerco i suoi occhi a quel pensiero, per fuggire attraverso gli unici spiragli di pace che conosco. Due pozzi neri mi fissano dall’alto di un volto infernale.

Spore nocive riempiono lo spazio, l’aria è satura, la terra trema, la stanza ci offre una visione surreale. Mentre il crollo imminente incalza costringendoci a pensare in fretta, per me il tempo si ferma e mi porta con sé.
I corpi dei soldati sono imprigionati dalla vegetazione, inglobati dal frutto insano di questa flora, avvolti da una strana resina di spore trasparenti e solidificate. Intatti, conservati in un riposo inviolato totalmente naturale, cristallizzati nella loro ultima e terribile espressione di addio alla vita. Il fiato rubato da un silenzio che soffoca il grido, le dita strette attorno a sciocchi baluardi di violenza.

Il viso di mio padre mi fissa attraverso la resina. Come cambiano i volti nei ricordi: si deformano accompagnando i pensieri, le mancanze, i desideri. Eppure lo riconosco, così reale da non sembrarmi vero.

Si ferma il cuore, rallenta la mente, l’energia del sangue mi scava nel profondo, rompe quel velo sempre più pesante e sempre più comodo, quello che da scudo diventa spada. Si sovrappongono i ricordi, la rabbia, il dolore, l’esigenza di sentire ancora quella voce. Non posso accettare che sia morto così. Dovrei chinare il capo, lodare il dio che l’ha spedito quaggiù, essere fiera del suo suicidio. La cosa più preziosa e più grottesca è vedere il re mentre piange i suoi sudditi prima di ucciderli tutti.

Riprende a pulsare il cuore di piombo, infiamma gli occhi, batte come i martelli sulle teste di chi muore solo. La verità nei polpastrelli solcati dal freddo della casa che non ho avuto, tagliati dai filamenti di questa vegetazione ingorda.
Strade, palazzi, alte mura, armature scure come la notte, occhi sempre più freddi, gli occhi che pur fingevano di volermi bene. Soldati strappati a vite fugaci, ad affetti impossibili, che ancora scrivono il proprio nome nel limbo fallace del tempo immobile che li custodisce.
Vivere nel timore sembrava un’opportunità. E non si trattava neanche di paura, non si trattava di pietà.

Quanto dolore sospeso, quanto dolore inesploso. Mentre scorre, scorre e brucia nelle mie vene, un unico enorme interrogativo.
Il tempo ricomincia a scorrere, gli altri mi urtano, hanno fretta di uscire, potremmo morire tutti. Il corpo di mio padre cade a peso morto, avvolto nel sacco a pelo e caricato su spalle possenti. Lui mi scuote, dobbiamo andare.
Ripercorriamo i cunicoli mentre il soffitto inizia a franare, e il fuoco sgorga dai meandri del mio essere, si abbatte su ogni residuo del verde malsano che ha reso quest’antro un covo mortale.
Parole arcane più simili a un grido, che erompe dalle mie labbra e mi deforma i lineamenti. Un urlo che non chiede aiuto ma vuol far sapere che esisto, che _io_ esisto, e che ora conosco.
Forse è un urlo in cui in fondo all'ansia si sente qualche vile accento di speranza. Oppure un urlo di certezza, assolutamente assurda, dentro a cui risuona, pura, la disperazione.


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Il piccolo cimitero al riparo nell’insenatura rocciosa è avvolto dal silenzio della sera. Le poche lapidi sono semplici, alcune corrose dal tempo, altre riportano brevi dediche senza troppi fronzoli.

L’accolito fa oscillare l’aspersorio mentre la sorella vigile si prepara ad indossare i paramenti sacri. I fumi degli incensi aleggiano sopra le tombe mischiandosi alla foschia notturna. I soldati poggiano a terra il corpo di mio padre, usandogli un rispetto di cui non li credevo capaci. Scopro lentamente il suo volto scostando il lenzuolo, cerco di imprimerlo nella mente lasciando che si mischi ai ricordi della ragazzina che non sono più. Quello strano sortilegio naturale ha conservato i suoi lineamenti, offrendomi un’ultima preziosa occasione per dirgli addio.

Il bardo ha sistemato le assi: la bara è semplice e anonima come gli avevo chiesto. Mio padre era un uomo umile, non è mai stato un eroe, nemmeno morendo per la causa che aveva servito durante tutta la sua vita è riuscito a fare qualcosa di memorabile. Ma per me, per la mezzelfa spaurita che ero, lo è stato in ogni attimo.
L’uomo che mi ha accettata come suo errore, che mi ha cresciuta seppur dalla distanza, che ha creduto in me quando non ero che un rifiuto della bassa società zhent. Un soldato dalle mani ruvide, ancora in grado di accarezzare qualcosa di delicato e capirne il valore.

Mentre contemplo il suo volto, e l’accarezzo per l’ultima volta, combatto tra la dolcezza dei ricordi più banali che ho di lui e la rabbia che mi monta dallo stomaco, che mi chiede soltanto di lasciarle sfogo. Ancora una volta serro la mascella e respiro lentamente, ancora una volta soffoco quell’unico inesauribile fiammifero che non può divampare.

“Alcuni direbbero che i figli di Zhentil hanno luoghi come questo poiché piangono morti in ogni luogo del Faerun. Su una cosa sola peccano: noi non piangiamo.”

La voce della sacerdotessa è ferma e solenne, rimbomba appena, in lontananza, riempiendo il vuoto della notte. In cuor mio le sarò sempre grata per tutto questo, anche se ho la certezza che lo faccia soltanto per dar voce al suo zelo religioso. Forse, in un mondo diverso, saremmo persino buone amiche.

Le sue parole in questa notte sono solo per te, padre. E per quelli che sono qui stasera, per i motivi più disparati, a chiedersi se anche loro moriranno per la fede, se qualcuno mai li cercherà quando cadranno, se saranno vincitori, eroi, o sconfitti.

Guardo il tuo volto immobile, padre, e centinaia di domande percorrono lo spazio che ci separa. Cosa ci fa sentire vivi, immensamente vivi? Cosa ci uccide? Cosa ci riempie di morte mentre ancora viviamo?

Risposte sconosciute, risposte scontante, da contare sulla punta delle dita di una mano. Le lezioni per disimparare, i comportamenti da tenere, gli interrogativi cruciali e i dubbi esistenziali.
Cambiare, osare, distruggere, sanguinare. Lacrime sulle guance di una donna bionda che non scendono, la rabbia negli occhi di una figlia orfana fin dal principio del suo esistere.
Essere vivi, odiare, serbare rancore per costringersi a non morire. Non ancora, non adesso. La stessa passione che anima le mani quando sfiorano, quando graffiano la pelle di chi hai amato, la stessa sete che amplifica i sapori e gli odori eppur puzza costantemente di morte.

Io che sono nata in una città circondata da mura fortificate, sono fatta per essere devastata. Un pensiero isolato tra i mille che mi attraversano il cuore: è curioso che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare la distruzione.

“In un solo modo otterrai quanto ti spetta: Odio. Per ogni singolo caduto che ci è stato strappato, per il modo in cui ci è stato sottratto il diritto di piangere i nostri morti.
Odio. Perché metà Faerun davanti al suo gesto eroico verrebbe qui a sputare sulla sua lapide.
Odio. Perché loro non si fermeranno ad un solo caduto, e verrà il giorno in cui busseranno alla tua porta di figlia pretendendo ancora sangue per la tua fede.”


Odio. L’unica fiamma perenne, inestinguibile. Perché nulla colma la voragine corrosa dal suo rimestarsi nel profondo del cuore. Oltraggi imperdonabili, che nessuna vendetta può placare. Un vuoto che non troverà mai abbastanza sangue per dirsi colmato. Una nota latente, che risuona nel fondo più buio della coscienza, pronta ad entrare in risonanza con mille altre armonie sparse nel mondo. Canti di collera, di sdegno, risentimento, dolore. S’alza un coro magnifico e terrificante quando tutto combacia e l’odio dilaga, imbrigliato, canalizzato, inarrestabile.

E dunque, cosa ci fa sentire vivi, immensamente vivi? Lentamente le risposte vengono a galla. In fin dei conti le ho sempre conosciute.

Cerco lo sguardo dell’unica persona che non potrei mai odiare, e mi chiedo se senza quel combustibile divino potrò continuare a riempire le nostre giornate di vita, attingendo soltanto a ciò che dell’odio è l’esatto contrario.

“La sua lama era mossa da un sogno: che ogni filo d’erba del Faerun fosse cinto da Nere Mura. In suo onore, ed in sua memoria, facciamo nostro quel sogno.”

La mano della donna mi accarezza con una dolcezza di cui non è certo capace. La immagino provare quei gesti centinaia di volte, come un rito da compiere nel modo corretto, senza aver alcuna empatia per ciò che quei gesti trasmettono. La litania in infernale cresce e si diffonde, l’energia malvagia inizia a pervadermi come una tentazione squisita a cui solo uno stolto opporrebbe resistenza.
Espiazione. Il silenzio che segue la fine dell’incanto distilla gocce di una pace totale, che forse non ho mai provato prima d’ora.
Il peso della colpa svanisce, la certezza dell’odio rimane.

“Maestro d’Armi, mi fareste l’onore di scavare per questo soldato il giaciglio ultimo?”

Come potrei dimenticare tutte le volte che mio padre mi aveva parlato di quel mezzorco, narrandomi gesta ed imprese eroiche degli Zhentilar in cui tanto credeva. Così tanto da morire per un ordine di qualcuno al pari del mezzorco che ora si china e scava la terra scura.

“Un guerriero deve morire in modo onorevole o avere una sepoltura militare. E’ la tua ultima missione, Zhentilar. Combattila ed eseguila.”

La bara viene chiusa ed inizia a sprofondare nella terra. Questo è realmente un addio, ed è forse il momento più stupido per iniziare a piangere. Non posso farlo. Semplicemente, non posso.

La temperatura inizia ad essere gelida in questa notte piena di ricordi. Un lieve spostamento d’aria attrae il mio sguardo verso il buio di fronte a me.
Una figura spettrale, immobile, mi fissa. Un ultimo sguardo, secondi rubati alla frenesia del tempo, l’ultimo desiderio di un padre che ha lasciato sola la figlia tra le insidie del mondo.

Non riesco a dire neanche una parola. Tutto ciò che andava detto è esattamente in quello sguardo. Piange tutto, dentro di me, tutto tranne i miei occhi. Ora so che lui avrà pace, e questa consapevolezza non mi alleggerisce se non per qualche istante. Perché io rimango qui, a portare il peso di ciò che va fatto, a lottare, ad arrancare.

Ma non sono sola, padre. Hai visto? Non devi preoccuparti per me. Starò bene.

Sì, forse gli avrei detto solamente questo. Come se fossi una figlia qualsiasi, che piange il padre e poi torna al focolare ad accudire i figli per dar loro un futuro migliore di quello che è toccato a lei.


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Ma il mio focolare è molto diverso. Richiudo la porta e mi stringo a lui. Perché adesso posso piangere, ogni singola lacrima, soltanto con lui, soltanto su di lui. Perché non mi sento debole nel farlo, perché non mi sento stupida. Perché se l’odio mi terrà viva quanto basta per compiere le mie ambizioni, è l’amore che darà un senso a questa ostinata voglia di non arrendersi.

Sono sfinita e provata da ogni singolo attimo di queste giornate. Mi infilo sotto le coperte e lascio il medaglione, preso a mio padre, poggiato sul tavolino. Non voglio vedere il suo interno, non sono ancora pronta.

Respiro, ascolto la notte. Non c'è alcun rumore particolare, solo il lieve mormorio del silenzio che emette una musa che dorme. Nessuno per strada, nessun insonne divorato dalla fame.
I fiumi dei pensieri corrono così forte da straripare, per poi arrivare alla foce ed innalzarsi in contrasto con l'incosciente mare. Un uragano di dubbi, agitato e confuso, e al contempo calmo, composto, sicuramente sconfinato.
Domande inchiodate alla parete nella speranza di certezze. Le stesse di cui forse si è macchiata mia madre, le stesse per cui venire accusati negli anni in cui si nuota a largo, dove i piedi non toccano, dove per non affogare conviene fare il morto.

La vecchia che mi ha cresciuta ripeteva ogni stagione che quell'anno il freddo avrebbe ucciso anche l'inverno. E quel freddo permane, mentre cerco pace, mentre mi ribello, incrociando le labbra con le sue, così rotte, così secche, che ogni bacio lacera la pelle.

Infondo non facciamo altro che morire ogni giorno un po’, ma tra le braccia l’uno dell’altro, forse, riusciamo a non perderci in frantumi.

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view post Posted: 26/4/2020, 17:34 Il Canto dell'Odio - Le leggende di Faerun

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♪♫♬musica♬♫♪



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Ci sono giorni in cui tutto scorre via lento, luoghi come finestre su spiragli passati, un mondo in cui le immagini e i dettagli appaiono del tutto chiari, inequivocabilmente distinguibili, perfetti nei loro angoli convessi, onesti nei colori, delimitate le sfumature. Ricordi che offrono sull'altare della consapevolezza la più limpida nitidezza.

La tenda sta bruciando, cosa importa se per incendio volontario o per fatalità? Questa è la somma cifra che mi chiede la libertà, questo è il mio assillante e sordo urlo che sbatte nelle pareti della mia testa, che gira come un vortice, come un tornado che non spazza via niente di ciò che può farmi male.

La vecchia signora dell’orfanotrofio ha mani che sembrano radici nodose. Vene sporgenti e nocche gonfie, una fede incastrata sull’anulare e nessun uomo a scaldarle il letto. Pelle spessa, che non sembra percepire neanche lontanamente il calore dell’acqua bollente in cui spinge la mia mano. La mia mano così esile, completamente aperta in uno spasmo di dolore mentre affoga nella propria punizione.

“Ti piace il fuoco piccola strega? E allora brucia. Prima o poi imparerai.”

La soffitta è fredda e angusta, mi si gela il respiro sulle labbra e la neve entra dall’unica finestrella rotta. Si intrufola dolcemente, fiocco dopo fiocco, sospinta da una sottile brezza notturna. La immagino danzare come fosse fatta di magia invisibile, di spettri inoffensivi, di segreti che svaniscono nel buio della notte.

La mia mano ha smesso di pulsare grazie al freddo, ma è ancora gonfia ed arrossata. La lascio affondare nel mucchietto di neve accumulato ai piedi della finestra: è uno strano brivido piacevole, che si propaga in ogni terminazione del mio corpo. Viva, sentirmi viva. Ardo di rabbia e desiderio di vendetta, ma la mia pelle è fredda, il mio corpo immobile. Viva, sentirmi viva, in una parvenza di morte.

C’è qualcosa di dolce nella sconfitta, qualcosa di morbido e seducente. Ora so che la sua lama non può farmi male, come potrebbe fare più male di così? L’orologio batte le ore, il fossato si allarga, non c’è un modo giusto per morire ma neanche uno giusto per vivere.

Chiudo gli occhi e ascolto la neve, che non fa assolutamente nessun rumore. Le chiedo di entrami dentro, attraverso questa mano dolente, la trasformo in antidoto, in miele sulle ferite. Non ho idea di cosa mi stia succedendo, ma la trama scorre con una fluidità così spontanea che nulla potrebbe fermarla adesso. D’un tratto non sento più freddo, niente di niente. Mi distendo sulla neve e accetto il mio destino.


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bard


E’ una tranquilla giornata autunnale. Sto tornando dalla spesa al mercato, mano nella mano con Jane che mi strattona infastidita dalla mia presenza e dall’obbligo di portarmi con sé. La sarta mi ha regalato una bambola di pezza che sua figlia non usa più, strizzandomi le guance e dicendomi che dovrei sorridere di più, col bel faccino che mi ritrovo.
Ma nel trambusto della piazza del patibolo, poco prima di rientrare, Jane inizia a correre più forte facendosi strada tra la folla. Mi trascina facendomi sbattere contro anche e gomiti dei passanti, le urlo di rallentare, ma si diverte a vedermi in difficoltà. Un colpo più violento degli altri e perdo la bambola.
Passano un paio di cavalli, un carro pieno di frutta, la gente continua a vorticarmi intorno. Jane è sparita nella confusione, rimango sola a lato della strada e scoppio in lacrime. Lo ricordo a stento, il sapore buono delle lacrime.

Un uomo si ferma, uno tra tanti. Ha un vestito bizzarro e un liuto a tracolla. Lo vedo fissarmi attraverso le lacrime copiose.

“Che succede meticcia? Ti porto a casa?”

E chi ci vuole tornare a “casa”? Gli dico della bambola. Mi brucia così tanto aver perso una delle piccole cose belle donatemi in questo squallore. L’uomo annuisce con un piglio deciso ed inizia a gironzolare per la piazza chiamando per nome la mia bambola. E’ serio, maledettamente serio. Quando torna da me si scusa tanto, mi fa un inchino, e mi dice di tornare domani, che l’avrebbe cercata lui per me quando la piazza si sarebbe svuotata.

E il giorno dopo eccolo lì, poggiato a un muro a strimpellare. Quando mi vede mi fa un sorriso affabile, si avvicina e mi lascia una lettera tra le mani. Notando il mio broncio intuisce subito che probabilmente non so ancora leggere. Così riprende la lettera, si china alla mia altezza, e con una voce morbida e incantevole mi dice:

“E’ da parte della tua bambola, c’è scritto: Per favore non piangere. Ho fatto un viaggio per vedere il mondo. Ti scriverò delle mie avventure.”

L’ho guardato a lungo, quel tizio bizzarro. Ero piccola, ma sveglia. Eppure quella sensazione strana, di calore, di assurda tenerezza, mi aveva completamente conquistata.

Lo rividi altre volte in quella piazza, quando si accorgeva di me, aveva sempre un foglietto pronto con qualche frase che mi leggeva ad alta voce. Erano le avventure della mia bambola, in giro per un mondo pieno di pericoli e meraviglie.

L’ultima volta che lo vidi venne all’orfanotrofio. La signora Marybel cercò di spillargli qualche donazione, ma lui era lì soltanto per me. Mi accarezzò la testa e mi mise tra le mani una bambola di pezza, nuova.

“Ma non somiglia affatto alla mia!”

Lui prese un altro di quei foglietti, che probabilmente contenevano appunti o canzoni che non centravano assolutamente nulla, e con la sua solita bella voce impostata mi recitò il contenuto della presunta lettera:

"I miei viaggi mi hanno cambiata."

Non lo rividi più, ma riuscii a tenermi stretta la mia bambola di pezza per almeno un paio d’anni. Quando Edward la ruppe per farmi un dispetto, decapitandola, mi accorsi che quell’uomo aveva infilato dentro una minuscola lettera. A quell’epoca avevo imparato a leggere, e forse fu una delle ultime volte che piansi.

"Tutto ciò che ami probabilmente andrà perduto, ma alla fine l'amore tornerà in un altro modo."




[liberamente ispirato alla biografia di F. Kafka]

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Se lo osservo adesso, quel destino, ha le sembianze di una strada che non è una strada, è un sentiero sconnesso, buche e sassi sotto i miei piedi lacerati, che lasciano passi d’ombra collosa mentre mi muovo verso una luce che non risplende.

E’ una vita che ti pugnala alle spalle. Pelle, carne, muscoli, legamenti, polmone, cuore, è una lama feroce, rabbiosa, che si conficca dentro me e non esce. Sta lì, come una crisalide, una farfalla spezzata che incrina, vanifica, la mia smania di emergere, di scalciare, di urlare una rinascita.

La natura umana è così maledettamente semplice e così inspiegabile. Ciò che divide il bene dal male è un filo sottile, quando si spezza tra le mani mischia gli opposti e lascia smarriti. Non c’è mai realmente scelta.

“Il mondo è lo stesso per tutti noi e bene e male, peccato e innocenza, lo attraversano tenendosi per mano. Chiudere gli occhi di fronte a metà della vita per vivere in tranquillità è come accecarsi per poter camminare con maggior sicurezza in una landa disseminata di burroni e precipizi.”


≑≑ IV ≑≑


forza


Ed eccomi ancora qui, sull’orlo di quel filo sottile, a chiedermi se non sia stata una pessima figlia. Troppo impegnata ad accusare la donna che non voglio chiamare madre, a colpevolizzare mio padre per non esser rimasto di più con me quando poteva. Da che parte è oscillato il pendolo delle mie azioni? Chi sono diventata, e perché?

Io che l’ho pianto in silenzio, che a stento l’ho nominato per sentirne riecheggiare il nome e non lasciarlo scivolare nell’oblio della storia di questa città. Ma che non ho mai avuto coraggio di cercarlo, di dargli una tomba su cui piangere, di onorarlo versando altro sangue nel suo nome.
E di onorare anche me stessa, la donna che sono diventata, cancellando da questa terra l’ombra codarda ed inammissibile del mio sangue materno.

Io che raggelo e rabbrividisco al pensiero di trovare i suoi resti, di doverli osservare, assimilare nel pensiero, accettare. Polvere alla polvere. Carne ed ossa mischiate alla banalità nuda della terra. Io, che senza sbatter ciglio strappo il cuore dei nemici a terra con perizia da cerusico, che vivo tra creature non morte, che ordino omicidi a sangue freddo.
Ma di fronte a quel pensiero torno minuscola. Spaventata ed inerme.

Come al cospetto del terrore di Bane, inginocchiata di fronte all’altare, con la mano sottile della sacerdotessa che mi scosta i capelli e non un solo muscolo del mio corpo reagisce. Trattengo il fiato e attendo il tremendo giudizio.

“Una devota oggi chiede parole per un padre. Un padre, non un eroe, poiché noi non abbiamo bisogno di eroi. Gli uomini che temono la morte più del suo giudizio, giudicano “eroi” i caduti. Voi chiedete di onorare un rigore, nelle parole che condurranno la sua anima al Tiranno.”

Le parole della donna riecheggiano nella sala semideserta e poi tace. Riesco a sentire solo il rumore dei suoi passi, lenti e cadenzati, attorno a me. Sono istanti interminabili, riempiti soltanto dall’istinto di sopravvivenza che scalcia dentro di me scontrandosi con il mio autocontrollo. Sto facendo la cosa giusta, ma ho una paura fottuta.

“Questo avverrà se voi come figlia abbraccerete il vostro dovere. La Mano Nera trionfa sempre su chi gli si oppone, mai le carni di un Dio furono più straziate delle sue, e con ogni sua azione Egli ci domanda Odio, come fosse un unico Verdetto.”

La voce imperante di Celine è un piacevole paradosso. Non oso guardarla ma conosco i suoi lineamenti graziosi, mentre percepisco la fermezza delle sue parole che sembrano tuonare come venissero direttamente da uno squarcio nero spalancato nel cielo.

“Egli chiede un dovere al tuo sangue. Non solo troverai i suoi resti, ma le tue azioni muoveranno Vendetta e Rovina su chi gli si è opposto come devoto. Rovina, cali sui colpevoli o sui loro discendenti, poiché Egli ti chiede di ucciderli.”

Terrore e compiacimento cominciano a mischiarsi in una strana forma che mi pervade in ogni centimetro del corpo. Tutto l’odio e la frustrazione covati per anni, sublimati in un momento così solenne. Potrei quasi ridere, gioire, urlare, ma non emetto neanche un fiato. La mano di Celine si stringe sul mio collo, con una forza inaudita di cui non la credevo capace.

Quando mi lascia, per la prima volta sollevo il viso, con tutta la fierezza che non posso celare. E verso quell’altare di fredda pietra pronuncio il mio unico giuramento, sicura che se lui potesse vedermi, adesso, sarebbe un padre ricolmo d’orgoglio.

“Possa ardere la terra che ora è la sua tomba, e periscano tra atroci sofferenze coloro che hanno impedito alla sua lama di continuare a portare la parola di Nostro Signore.”

Poi toccherà anche a te, madre ingrata. Ma non ci saranno giuramenti solenni né cerimonie. Perirai nel più crudele dei modi, e non ci saranno lacrime per te, né ora e né mai.

Non esiste alcun filo sottile tra bene e male. Misuro la distanza tra me e il resto del mondo con un calibro di pietà, con un metro d’odio. Pensieri che allargano gli occhi, che si conficcano invisibili come aghi nella mente. Dal sangue sgorga altro sangue. Dal nulla non esce che il nulla.

view post Posted: 26/4/2020, 11:54 [GDR On] Missiva per la Funzionaria Maliwane - Zhentil Keep
La mezzelfa osservò la missiva analizzando ciò che quelle poche parole lasciavano trasparire dell'uomo incontrato alcune sere prima.
Le prime impressioni sono spesso sbagliate, di certo sospettose. Tuttavia qualcosa continuava a non convincerla. Si appuntò un paio di frasi sul suo solito quaderno, ed aprì la pratica per la cittadinanza, lasciandola per il momento sospesa.
Sarebbe stato il caso, prima, di approfondire un po' la conoscenza.
view post Posted: 23/4/2020, 09:33 [GDR ON] Missiva in Duplice Copia - Zhentil Keep
Stava sbrigando alcune noiose pratiche di cittadinanza nell'ufficio del palazzo governativo quando si ritrovò tra le mani la busta.
Posò il pennino e rimase ad osservare il simbolo sulla ceralacca, rileggendo più volte i nomi indicati per assicurarsi di non star avendo qualche allucinazione per aver passato troppe ore sulle carte.
Si guardò intorno, con la sensazione tipica di chi si sente osservato, tuttavia non c'era altro che il solito silenzio polveroso a farle compagnia.
Letto il contenuto della lettera fece un bel respiro, e si avviò a cercare l'altro destinatario del messaggio.



[ Organizzandoci per tempo ci sono quando volete ]
view post Posted: 13/4/2020, 14:57 [GDR on] Aberr'Arte - Le leggende di Faerun

Il maltempo infuria da giorni su Zhentil Keep, la pioggia inzuppa le strade fangose e il fragore dei tuoni vibra fin dentro le ossa. E’ notte fonda, e la stanza del collegio di Nuova Kay è illuminata da poche flebili candele tremolanti. Non so quante ore siano passate, ma a giudicare dal mio appetito, molte.
La risata irriverente del bardo risuona coprendo le parole garbate dello stregone calishita, mentre osservo il mio taccuino degli appunti pieno di scarabocchi e scritte cancellate.
Un vero e proprio caos che precede qualsiasi tipo di creazione. Perché noi non siamo maghi, perché la magia ci scorre nelle vene come un flusso tumultuoso, è istinto, passione, sentimenti contrastanti, scintille improvvise di consapevolezza.

“Ma in realtà non sarà affatto un museo. Dinamico, vivo, un’ispirazione in continuo mutamento.”

“Ma se invece che un nome fosse un titolo?”

“Arte…in gabbia! Artingabbia!”

“La fiamma artistica?”

“Il sollazzo banita!”

“La musa Zhent!”

“Il nascondiglio dell’arte…Tana Artistica?”

“Tanarte!”

“Sembra anche il nome di un demonio..”

“Museo, ma con un segno sopra!”

“Sarà l’Antimuseo per eccellenza.”

“Ma non sarà meglio metterci un suffisso? Centro d’arte…qualcosa?”

“E chi l’ha detto che si debba capire subito?”


Pellon Kay. Ricordo ancora la prima volta che l’ho incontrato, sembrava il classico artista di strada che viveva alla giornata raccontando fandonie e cercando di ingraziarsi l’appoggio di qualche borghese annoiato.
Fastidioso, camminava sul pericoloso confine del personaggio scomodo, che rischiava di sparire da un giorno all’altro. Tuttavia il mio recente passato itinerante con la compagnia d’artisti mi aveva abituato a quelli come lui, e sapevo distinguere il talento dalla mendacia.
Per me Pellon Kay aveva talento, andava solo indirizzato per il verso giusto.

Ricordo ancora la notte in cui ho ascoltato le sue melodie dissonanti, pioveva a dirotto, proprio come adesso, ma all’epoca non avevo potuto offrirgli altro che un patto di collaborazione reciproca, per uno scopo comune. Pensavo che sarebbe sparito con i miei soldi il giorno stesso, del resto non erano poi tanti. Invece ci ha messo un po’ di più a sparire, e a dirla tutta è stato meglio così. I tempi non erano affatto maturi.

Devo ringraziare la mia vena imprudente e scommettitrice per non averlo bruciato sul posto non appena si è ripresentato, mesi dopo. Beh, a dire il vero questo è successo comunque, durante la fiera, ma è tutta un’altra storia. Potrei giurare che non l’ho fatto per ripicca, ma chi mi crederebbe? E’ stato così sublime.

Ed ecco che il bardo ha avuto la sua seconda occasione, raccomandato dalla sottoscritta, non senza una profonda apprensione da parte mia, temendo il peggio. Ha dimostrato invece tutto il suo talento davanti all’intera città. I tempi erano maturi, e non potevo lasciarli sfiorire invano.

Quando il musico dalla lingua tagliente mi ha presentato il suo progetto di costruire un collegio bardico a Zhentil Keep, ho capito che c’era un enorme potenziale e che forse potevo far sì che crescesse ulteriormente.
E’ allora che abbiamo deciso di estendere il piano: non solo un Collegio Bardico, ma un vero e proprio progetto culturale che includesse il Teatro dell’Argine e un Centro Artistico Espositivo attualmente mancante in città. Una rete di interconnessioni tra le strutture, temi periodici, ispirazione, fascino, mistero, puro intrattenimento.

Nel segno di un’arte d’avanguardia, imprevedibile, continuamente mutevole, come il colore ad olio che si accumula sulla tela a pennellate dense, e poi inizia a cambiare mentre lo stendo con le dita, penetra nei pori del tessuto, prende altre forme e significati.
Un progetto ambizioso, tuttavia relegato in un confine piuttosto inoffensivo, persino in una città tirannica come questa, che è quello dello svago.

Le idee innovative e dissacranti del bardo dai modi grotteschi, unite al fine gusto estetico di Darad ed al suo innato ed esotico carisma, mi apparivano come un paradosso squisito. Non dovevo far altro che conciliare le cose, gestirle, osservarle prendere forma.
Ci mancava soltanto un tassello: un finanziatore abbiente. Avevo la risposta anche per questo.


“Ogni stagione espositiva sarà introdotta da uno spettacolo teatrale degli allievi del collegio”

“Ma se le visite fossero più dinamiche del solo guardare?”

“Dovremmo raccontare storie, attraverso un percorso sensoriale su più livelli. Oggetti, profumi, colori, cibi da assaggiare.”

“Un percorso prestabilito, che si snoda tra angusti corridoi disseminati di elementi legati al tema.”

“La musica! Ah, e delle creature in gabbia!”

“E perché non lasciare che gli artisti in città contribuiscano al tema con le proprie opere?”


La notte trascorre e le idee si accavallano. Ma manca sempre qualcosa. Il gusto zhent non è banale, solleticare la curiosità senza cadere nel già visto è tremendamente difficile. E’ una città abituata a patiboli nelle piazze, al degrado contrapposto allo sfarzo, alla violenza per le strade, alla paura, alla tirannia dai toni foschi delle tenebre.
Come esprimere l’innovazione artistica ed al contempo affascinare un pubblico abituato a tutto questo?

“Al diavolo le meraviglie! Puntiamo sull’orrido, il grottesco, lo spaventoso.”

“Così sì, sarebbe diverso.”

“Sì, ma un grottesco non volgare, deve affascinare, creare quel brivido di lieve terrore che intrattiene.”


Lentamente il primo tema inizia a delinearsi, ed ha esattamente la forma che ci serviva. Con un pizzico di magia per condire il tutto, e un progetto ben fatto, potrebbe funzionare.

“Sarà l’Antimuseo per eccellenza.”

“Antimuseo Aberr’Arte.”

“Sì, mi piace.”


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view post Posted: 11/4/2020, 17:11 Il Canto dell'Odio - Le leggende di Faerun

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♪♫♬musica♬♫♪


bed


Turbini di tuoni squarciano la nera notte, saette di luce attraversano il cielo spalancando varchi verso stelle lontane. La pioggia mi graffia la pelle mentre mani di vento mi trattengono i vestiti.

Il rumore della porta che si chiude attenua la bufera ma non può placarla. Il ramo del melo bussa ritmicamente alla finestra, la sfrega, si schianta, e poi ricomincia a ballare nel vento. Può insinuarsi tutto questo tra i pensieri? Sparpagliarli in disordine tra le sensazioni fuggevoli, tranciare le connessioni, annullare la logica?

E’ davvero qui che sono? Esisto? Esiste?

Sfioro le pareti camminando scalza, mi scopro a trasalire ad ogni fremito di vento che cerca di spalancare le imposte. Una sensazione opprimente e ben sedimentata da qualche parte nel mio istinto di sopravvivenza mi sussurra parole al veleno: “ci sarà sempre qualcosa che proverà ad entrare”.

No. Non ora, non qui.

Trattengo il fiato e cerco il buio delle mie palpebre. Conto a lungo, riprendo a respirare. Si può aver terrore di un incubo mentre si sta vivendo un sogno? Ubriacarsi dell’aria più pura e respirare a fondo, respirare fino a quando inizierà a bruciare i polmoni. Divorare tutto ciò che stringo, per paura che persino la pelle mi venga strappata via dalle mani.

La pioggia inizia a tramutarsi in neve, poggio le dita sul vetro ed in un balenare di fulmine scorgo il riflesso del mio viso. Non è così che lo ricordavo.
Una bambina terrorizzata che fissa le tenebre della notte cercandovi le risposte che non può avere.
E’ davvero il mio quello sguardo? Paura, rancore, delusione, speranza, ambizione. Tutto lì, su un volto minuscolo, forgiato dalla natura con una grazia delicata, inadatta ad esprimere la spietatezza di quel calderone di emozioni.

Cosa ci ha visto lui in quegli occhi? Incastonati in un viso cresciuto, ma mai realmente mutato. Grazia trasformata in composto distacco, rabbia diluita in pazienza, in bruciante e consumante attesa.

E cosa ho visto io nei suoi? Ombre, morte, potere, mistero, alienazione. Distacco, glaciale distacco. Camminare al fianco per mesi e non sfiorarsi. Scavare l’aria attorno, cercare un varco, farsi strada lentamente tra i pensieri, le connessioni impreviste, stupefacenti, inaspettate.

Ogni cosa al suo posto. Il fuoco scoppietta nel camino, il vento smetterà di urlare, la neve placherà le ombre.

Le estremità combaciano, i frammenti si spezzettano in polvere. Tutto è esattamente dove deve essere.

La notte non è che un ladro di carezze, e il giorno con la sua luce spietata è soltanto un araldo dell’attesa. Tutto continua a muoversi intorno ma come un sortilegio ogni cosa torna sempre esattamente qui. Qui dove tutto ha un senso, qui dove non ho più bisogno di farmi domande, qui dove regna un’assurda ed immeritata serenità.

Ho ancora paura? Ogni maledetto istante. Ogni respiro è contato, centellinato, prezioso. Questa quiete che sgorga dal cuore a volte diventa sangue. La sua mano che sfiora i miei graffi talvolta diventa tragedia. La morte qui sulle mie spalle, come una creatura della notte, affamata, che chiede luce e cammina quando noi dormiamo. La paura ha una faccia sanguigna, labbra di metallo e denti affilati.

Ma con altrettanta oscurità lui combatte il tempo, e disegna il futuro con l’inchiostro nero della morte sulla tela della notte.

Com’è bizzarro il destino. Di questo dovrei aver paura, fuggire terrorizzata davanti a un potere che mi annichilisce e sgorga da quelle stesse mani in cui cerco riparo ogni notte. Dovrei temere il gelo mortifero, i muri che tremano, la magia che mi penetra nel petto e cerca di strapparmi via da me.

E’ questo che si prova morendo? Qual è l’ultima preghiera? L’ultimo frammento di pensiero? Di cosa ti penti, in quella frazione di secondo che ti mostra esattamente per ciò che sei, forse per la prima volta nella vita?

Provo uno strano sollievo, perché mi rendo conto di non aver alcun bisogno di rispondere. Anche se l’aria è gelida e pesante, anche se l’ignoto ci sovrasta, anche se il dolore è lancinante, le carezze sono qui. Non posso sentirle adesso, ma ne conosco l’essenza e questo mi basta.

La certezza che lui sia lì, che questi attimi perdureranno, preziosi, perché li abbiamo fatti nostri. Perché abbiamo vissuto, e l’inconsistenza di questa grazia a noi concessa sarà ancora lì, anche se il multiverso dovesse crollare. Esisterà persino nella tenebra, nell’assoluto nulla.
Si aggirerà come uno spettro imbronciato, si nutrirà della stanchezza dolce di chi guarda e passa. Sarà uno spirito rabbioso e inquieto, da cui gli amanti si lasceranno cullare nel dormiveglia, nel confine tra l’illuminazione e l’oblio.


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view post Posted: 3/4/2020, 12:35 Il Canto dell'Odio - Le leggende di Faerun

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♪♫♬musica♬♫♪



sil_ritratto_perga


Finché alla fine venne il giorno. Venne.
Alla fine di un lungo giorno, quando lei disse
(a sé stessa, a chi se no?)
tempo di smetterla, tempo di smetterla.
Di andare avanti e indietro, tutto intorno, alto e basso.
Per qualcun altro, qualcun altro, come lei.
Un’altra creatura come lei, un po’ come lei.



Le cose che dobbiamo dire, per sopravvivere. Le promesse che bisbigliamo, le bugie che centelliniamo.

Persistente è l’amaro che il troppo dolce lascia in bocca. Stordisce più del vino fissare un cielo che non può più appartenerti, incassare i colpi, lasciar scivolare addosso la sofferenza come melma ruvida che corrode.

Raccolgo frutti acerbi, dispongo con cura le spiegazioni, disintegro le lacrime prima che possano tradirmi.

Sono crudeli i passi che lascio dietro di te, più muta delle parole. Parole che inghiotto, dopo di te, mentre da te mi sradico.

“Il valore si dimostra con le proprie azioni, sono inutili le tue parole”

Battaglie che dobbiamo vincere, per sopravvivere. I prezzi che paghiamo, i compromessi che accettiamo, i frammenti che perdiamo. Tutta l’acqua del mare non placa la sete di chi non la può bere.


Avanti e indietro.
Per qualcun altro, un’altra anima vivente.
Così alla fine di un lungo giorno rientrò.
Dicendo a sé stessa, a chi se no?
Tempo di smetterla di andare avanti e indietro.
Tempo di tornare dentro e sedersi alla finestra,
quieta alla finestra, di fronte ad altre finestre.



Il presagio di un disastro vicino, di una sventura che attende negli angoli bui. Una tempesta tremenda incombe sui marinai quando da sole, senza vento, le onde placide cominciano a gonfiarsi.

Ma il mondo non si ferma, non c’è tempo per pensare. Il rumore del metallo, le grida, l’odore delle persone accalcate, la paura, l’eccitazione.

“Per Zhentil Keep! Ora e Sempre!”

Inseguo un sogno disperato, desidero la luna come se esistesse un modo per ottenerla. Ed in ogni istante percepisco l’abisso che separa ciò che sono per gli altri, da ciò che sono per me stessa.

Il fumo si dirada, riempie le narici, mi sfiora le labbra, evanescente scompare tra i fantasmi di parole che ancora oggi mi fanno avanzare sprezzante sul filo di una lama.

“Tu puoi essere ciò che vuoi, non devi obbedire per forza. Silerah, devi fottertene.”

Siamo vagabondi nel mondo e dentro noi stessi, a volte sfioriamo qualcosa che ci assomiglia, altre volte sbattiamo con violenza addosso a qualcuno che vorremmo capire, senza motivo. Ciò che conta è solo continuare ad andare.

Non c’è il suo sorriso strafottente adesso davanti a me. Osservo la donna di ferro e cristallo che con tanta fermezza impone il suo incrollabile credo.
La immagino sgretolarsi come roccia friabile, sotto il peso di tutti gli obblighi che annienteranno la sua anima.

“Dovreste pensare a come agire secondo i dettami del supremo Tiranno, anche nelle faccende più quotidiane. Facciamo un esempio: voi siete innamorata, Silerah?”

Capita a volte che due anime solitarie si fermino davanti all’ineluttabilità di un sentiero. Che capiscano nel lampo di un istante una semplice verità, che completarsi è un colpo di follia meditato, proteso a costruire un destino.
È chiudersi all’aperto, sapendo che a nessuno dall’esterno sarà permesso entrare.
Un sublime stato di grazia, di strafottente e imbarazzante…felicità.

“Se volete agire in gloria del Signore Nero dovete prendervi quel che desiderate. Calpestando, bruciando, lasciando intorno solo macerie. Tiranneggiate su ciò che ritenete vostro.”

La maggior parte degli uomini sono come una foglia secca, che si libra nell'aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri, pochi, sono come le stelle fisse, che vanno per un loro corso preciso, e non c'è vento che li tocchi, hanno in sé stessi la loro legge ed il loro cammino.

E’ questo che ho fatto? Tiranneggiato, calpestato, bruciato? Ho preso ciò che desideravo con banitico fervore, o sono stata scaltra abbastanza da trattenere il fiato mentre mi abbandonavo alla corrente impetuosa?

Invidio la terra, l’indifferenza con cui accoglie la violenza che le riversiamo addosso, la quiete imperturbabile con cui si disseta del sangue e lo fagocita, lasciandolo scomparire nel ciclo naturale che tutto trasforma.


Così alla fine tornò dentro e sedette,
alla sua finestra, rialzò la tenda e sedette
quieta alla finestra, sua sola finestra
di fronte ad altre finestre, altre sole finestre.
Alla sua finestra qualcun altro come lei,
un po’ come lei, un’altra anima vivente
sola altra anima vivente alla sua finestra.
Una sola tenda su un’altra sola.
E che importa una faccia dietro il vetro?
Occhi famelici, come i suoi
di vedere, essere visti.



Ci sono solo i suoi occhi. Scuri, placidi, rassicuranti, come una tranquilla notte senza stelle. Ferini, avidi, venefici, un baratro buio. Paradossi. Equilibrio.

Strati di inchiostro che si accumulano sopra un’unica e ben delineata figura. Dettagli che sbavano, dita che scorrono sulla tela assorbendo la vernice. E’ tutto lì, ha una forma precisa. Sono io a disegnarla o lo stiamo facendo entrambi?

Chi sei stato e chi sei sono cose differenti. Lì nel mezzo ci sono io, aggrappata all’illusione di poter tenere tutto insieme.

E’ come un disegno sotto la pelle, un lupo che ulula dal di dentro e carezza la schiena in un fremito primordiale. Sono arrivata troppo vicino, ma ne voglio ancora. Scendere fino alle radici per scoprire dove ogni creatura è più vulnerabile.

Stare nel mezzo di un ciclone, in quel punto perfetto in cui tutto vortica intorno senza sfiorarti.
Una volta che hai assaggiato l’anima, ne riconoscerai per sempre il sapore.


Finché il giorno venne, alla fine venne.
Tempo di smetterla di star seduta alla finestra.
Tutta occhi, tutto intorno, alto e basso.
Tempo di smetterla.
Così alla fine di un lungo giorno andò giù.
Alla fine andò giù, dritta giù,
nella vecchia sedia a dondolo.
e si lasciò dondolare, dondolare,
avanti e indietro, a occhi chiusi
socchiudendo gli occhi, occhi famelici.



Sono un albero solitario, aggrappato con profonde radici all'orlo di un precipizio. Contemplo il cielo in tutte le sue sfumature: tra il cobalto e il candore di neve si insinua l'ombra di nubi scure, cariche di presagi nefasti.

Il vento inizia a farsi furioso, sollevando mulinelli di cenere. Il cielo lentamente si fa di piombo, come se il blu potesse d’un tratto tramutarsi in nera e opprimente coltre funerea.

So bene che la vita ti strapperà via lentamente da me. Una vita dal sapore mortifero. Ombre agli angoli della stanza, assassini tra i vicoli, oscurità che ci fissa da oltre le stelle.

Troppo spesso i desideri si ritorcono contro di noi. Forse la vita non è abbastanza grande da tenerli insieme tutti. Sembra quasi impossibile rincorrerli senza farsi dannatamente male.

Eppure resto qui, disposta a tutto per fermare la nube nefasta che si addensa attorno alle nostre esistenze.
Dibattendomi contro una bufera troppo grande, troppo al di sopra di ogni folle e caparbia intransigenza.


Tempo di smetterla, tirar giù la tenda e smetterla.
Così alla fine di un lungo giorno
dondolare
dicendo a sé stessa:
fermale gli occhi,
la vita si fotta.
Fermale gli occhi,
dondola via.



Può essere la nostra anima leggera anche se incatenata sul fondo di un baratro?
Desiderare la luce che non può giungere così infondo, accarezzare l’illusione di una dolcezza perduta, sedersi accanto alle proprie paure e aspettare, ascoltando una voce che racconta favole davanti al fuoco?

Tutto ciò che non ho potuto avere, gli anni passati ad ardere di rabbia, i vuoti incolmabili, l’assenza degli affetti, il seme dell’odio germogliato attraverso la pelle e radicato in questa terra coperta di colpe, sangue e violenza. Tutto tace, pur non smettendo di esistere.

C’è un profumo di legno, di aria leggera e frizzante. Di terra umida e di germogli di fiori appena dischiusi. Di ceppi bruciati nel camino, di pelle calda, di vino speziato.

Potrebbe essere qualunque ora, in cielo o in terra, tra le stelle o nel fango. Potrebbe esser giorno o notte, gelo o tepore, vita o morte: qualsiasi paradosso impallidisce davanti alla meraviglia di un desiderio realizzato.

≑≑≑≑≑

“Questi sono tempi bui, ma ogni ombra per quanto profonda è minacciata dalla luce del mattino.”


MSperga

view post Posted: 31/3/2020, 11:22 [Quest] Il Reame Remoto Colpisce Ancora - Zhentil Keep
Hola fanciulli malefici! Causa Fiera cittadina la cosa si è protratta più del previsto, comunque siamo rimasti con le informazioni condivise nell'ultima riunione, intenzionati a partire per l'isola. Dunque, votate:

https://doodle.com/poll/i4cb5mk5e3xwbfrq
view post Posted: 30/3/2020, 17:04 I Sette Volti di Zhentil Keep - Zhentil Keep

*Durante i giorni festivi una pergamena pregiata viene affissa nella piazza principale della città,
per riportare gli esiti della fiera in corso*


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view post Posted: 29/3/2020, 14:15 Il Canto dell'Odio - Le leggende di Faerun

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♪♫♬musica♬♫♪


zk

Esistono tempi per tutto. Giorni ordinari e metodici. Attimi imprevedibili, maledetti e stupefacenti.
Tempi veloci, tempi lenti, frammenti, porzioni ed interi universi. Il tempo ci soggioga, divide in violente fazioni le nostre costellazioni di pensieri, qualche secondo e a volte tutto cambia, un amore si spacca, un cuore si ferma, un figlio rimane orfano, un uomo diventa uno spettro, una donna rinasce di ferro.

- …Stai ancora rimuginando… -

Parole taglienti, accuse ruvide, inchiostro al veleno. Questa sofferenza è strana, il dolore mi purifica, orribilmente mi fa sentire viva. Ogni ammissione sorge nel fuoco e nelle fiamme che danno luce al sole, e quest'ultimo brilla in uno sterminato buio universo.

- …non vuoi ammetterlo nemmeno a te stessa… -

Le due facce della stessa moneta sono perfettamente antitetiche e simmetriche, coniate per dare un valore unitario al freddo pezzo di metallo. Con quanta veemenza ho odiato la sua mano tetra posata sul mio capo, la sensazione di soffocare e non esser padrona del mio destino, schiava di forze e volontà più grandi. E in quale disperazione mi ha gettato la possibilità di essere libera, al prezzo di perdere il mio aguzzino?
In questi momenti di matura consapevolezza riesco a scovare una piccola alba dentro un tramonto stanco che si appoggia sul crinale del monte. Percorro la strada che avrei dovuto seguire da tempo e pago i miei debiti.

"Affrontami."

Non voglio più recitare a memoria una parte che non ho scritto. Io scelgo la vita, scelgo la morte, scelgo di non scegliere. Scelgo il flusso.


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Il porto è tranquillo al crepuscolo. C’è quella calma che ti massacra, quando tutto sembra al proprio posto ma tu continui a percepire temporali inconsolabili, a mille miglia da lì.
La speranza, questa strana invenzione. Un brevetto del cuore, il cui moto è continuo e instancabile. Un accessorio superfluo di cui non si sa niente, ma il cui impulso possente rafforza gli animi più codardi.

- Non risponderà. Devi smetterla... -

Chissà se le onde troveranno mai il modo di far pace con le rocce che nei secoli hanno cambiato forma assecondando la rabbia del mare. Se si frantumassero, quei pilastri di terra, il mare tuonerebbe ancora?
Rumori lontani di onde infuriate di schiuma, colori profondi e bagnati di tempesta. Senza pietà il mare assalta la sete, accrescendola nel tentativo di domarla.

L’attesa mi lacera e scava solchi incolmabili nel labirinto di pensieri che non mi danno pace.
Vorrei che fosse possibile appendere al chiodo le armi. Arrendersi a questa lotta che è l’esistenza. Chiudere gli occhi, dirsi “ora smetto”. Smetto con la sofferenza, anestetizzo la mente, mi metto a posto, accetto il mio destino così com’è.

Non sono cattiva, non sono buona. Ho la violenza di chi sa pensarsi. La spietatezza della notte che incede implacabile verso il suo trono d’ombre ogni volta che il rogo del tramonto la reclama.
Mi preparo ad accogliere un’altra notte solitaria, cullata dal silenzio gelido di quest’isola sperduta. Ottusa e caparbia, resto ancora ad aspettare. Come quando si chiude il sipario, si spengono le luci, ed io non sono pronta ad andarmene.

Mi volto lentamente e lui è lì.

Dicono che siano indelebili le ore notturne che precedono le più grandi battaglie. Mi chiedo se io sia riuscita a preparare le mie armi e le difese, pur avendone avuto tutto il tempo, o se farò come mio solito, irruenta ed avventata.

Ma mi rendo conto che non mi importa, perché c’è un’unica direzione davanti a noi, e una ancora più profonda consapevolezza: entrambi non abbiamo alcuna possibilità di vincita, alcuna possibilità di perdita.
L’alba è ancora lontana, e questa notte è solo nostra.


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lovers2


Un’altra isola, un paesaggio nuovo, e l’ombra della sera che riempie le cose di bellezza. La polvere del tempo, il presagio costante del loro svanire. La quiete surreale che precede la tempesta.

Favole e ricordi di vite che non mi appartengono. Storie che sottendono significati diversi che mi illudo di poter comprendere. So bene che non hai bisogno di niente. Un monolite al centro del suo silenzioso deserto. Che tuttavia non riesce a smettere di desiderare.
Posso sentirti quando respiri, e non puoi celarmi il dolore che giunge alle mie labbra assetate di strappartelo via.
È il momento di fare i conti con ciò che sono, conti che non tornano mai. Note a margine, calcoli sbagliati, la tua presenza che scombina tutto.

Vacillo, sull’orlo di un confine che non voglio oltrepassare. Ma la tua voce mi chiama, risuona colma del buio di un sepolcro che sto aprendo a mani nude, incurante dell’oscurità che potrebbe investirmi, risucchiandomi in un abisso a cui non sono pronta.

La rabbia è una creatura mortale, contaminata, causa di tutti i peccati e di tutti i delitti. Ardente, crudele, bruciante di una vita più raffinata e selvaggia. La rabbia è un incanto singolare, una malia che rimescola nel profondo.

L’odio è più quieto. Somiglia a uno spettro in cerca di morte, esce lentamente dal suo sepolcro diffondendosi come fumo impalpabile, vacillando tra le nuvole come belva ubriaca.

Tutte le forze schierate in campo, e nessuna difesa. Il fuoco non basta, le parole nemmeno. I buoni propositi, le decisioni ferree, il terrore del domani. Spazzati da un vento inoffensivo, che soffia docile tra i fili d’erba.

Nel languore amoroso qualcosa se ne va, senza fine. E’ come se il desiderio non fosse nient’altro che questa emorragia, una fame che non viene saziata, un cratere che rimane aperto intorno ad una statua immota.
Corpo ed anima scagliati nell’abisso del tempo, attimi di sublime armonia, ritmi e vibrazioni pulsanti nell’ammaliante assenza di parole.

E’ una poesia del silenzio. Micidiale, perfetta.


≑≑ III ≑≑


gliamanti


Il vuoto del cielo in cui si dirada la notte lentamente disarma la collera. La consapevolezza affonda nella foschia che ricopre la terra al mattino. Il nulla avanza, divora, cancella. Non siamo niente eppure desideriamo tutto. Quest’alba è la terra di confine che non voglio attraversare, ma il tempo non mi aspetterà, non sarà gentile con me.

Prendo il mazzo di tarocchi dalla scrivania e li osservo tutti, uno ad uno. Scelgo l’unica carta appropriata, la giro sul retro, e con i residui di inchiostro sul pennino scrivo un monito per la mia stessa anima.

- Bisognerebbe sempre avere qualcosa di delicato di cui prenderci cura, per elevarci dalla brutalità dell’uomo. L’amore è un castigo. Ci punisce per non aver saputo restare soli. -

Appendo la carta al muro, è la terza della fila. Un brivido mi attraversa al pensiero di quali nefaste carte ancora attendono, pazienti, celate nel mazzo.

Vorrei poter mettere a tacere la mia mente, troppo scaltra per poter ignorare il fardello delle conseguenze. Come se non sapessi quel che mi aspetta nella spietatezza della luce del mattino.

Abbandonarmi all’incoscienza del sonno come la bambina sognatrice che non mi è stato permesso d’essere. Sorridere, al pensiero di tutto ciò che è accaduto nell’impercettibile frammento di un istante di tempo, rubato, avidamente, allo scorrere di vite prefissate.

“Semplicemente, inevitabile.”


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Edited by Aurin - 29/3/2020, 15:46
view post Posted: 27/3/2020, 18:18 Il Canto dell'Odio - Le leggende di Faerun

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maps


È una sensazione strana a cui non sono abituata. Calma, una calma assordante e pervasiva. Non un solo muscolo teso, nessun bisogno di bruciare, distruggere, urlare.

Scarica. Sconfitta. Un fuoco spento, niente braci. Calpesto la polvere, fine polvere di certezze lentamente scalfite.

Disarmante consapevolezza di non poter essere ciò che lui desidera. Una stella che si accende nel cielo notturno e brilla più forte delle altre, intermittente. Puoi provare ad ignorarla, e lei diventa sempre più grande, insostenibile.

Tutti noi viviamo distanti e anonimi. Dissimulati, soffriamo da sconosciuti. Ad alcuni, però, questa distanza fra loro stessi e un altro essere non si rivela mai; per altri è talvolta illuminata, di orrore o di pena, da un lampo senza limiti.
Sapere esattamente che chi siamo non ci riguarda, che ciò che vogliamo è ciò che non vorremmo, né forse qualcuno ha voluto. Sapere tutto questo a ogni minuto mi rende straniera nella mia stessa anima.

“Sei qualcosa che mi da tranquillità…”

Ma io ho un maledetto fuoco dentro, che divora ogni cosa. Sono un ladro di fiamme. Puzzo di bruciato. La mia lingua è maledetta e il mio sangue è denso di fango.

“Come potrei diventare ciò che non sono?”

Guardo la mappa aperta sul tavolo, cerco le coordinate, punto l’indice in quell’esatto luogo e rimango così, immobile, a fissare i miei fantasmi dritti in faccia.

“Qui troverai tuo padre…”

Hanno uno strano gusto le lacrime, un sapore che mi è estraneo. Osservo la mappa come un bambino che guarda per la prima volta un tramonto, e non riesce a trovare alcun valido motivo per credere che la luce possa rinascere. E piange, lacrime sincere, che lavano via i residui di un’innocenza che non ritornerà.
Piange perché il sole è morto tra le sfumature festose di decine di colori accesi, e le ombre si allungano a ghermirlo mentre l’oscurità avanza.

E quando tra le lacrime trova il coraggio di risollevare il viso, è la Notte che vede. Colma di stelle, e di misteri. Di cose bizzarre e particolari, di sofferenze che sono destinate a uno soltanto, di spiegazioni che non si riescono a dare.

Forse potrei proteggere la tranquillità che mi ha chiesto. Dal vento, dal gelo, persino dalla distruzione. Ma l’oscurità riuscirà sempre ad entrare.


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La vita, per breve che possa essere stata la mia, mi è sempre apparsa incredibilmente solida e terribilmente instabile. Sono ossessionata da questa contraddizione. Dura da sempre nel mio cervello, affonda fino alle radici del mondo e in quest’attimo in cui vivo, in cui sono cosciente di ogni spietata domanda senza risposta che continuerò a pormi. Transitoria, fuggevole, la vita passa come nuvola sulle onde. Perentoria, resiste e si aggrappa ad ogni granello di terra.

Forse è solo cambiando, fuggendo uno dietro l’altro, intersecandoci e violandoci, che possiamo in qualche modo avere una continuità. Una possibilità di esistere in forme più complesse di quella che è la nostra singola ombra effimera. Come quando la terra si sorpassa per abbracciare l’intero cielo, mentre il sole si inabissa alla curva dell’orizzonte.
E all’improvviso una luce dimenticata illumina il mondo mostrandomelo come non l’avevo mai visto prima. Una qualche bellezza che può ferire un occhio socchiuso molto più di quanto lo sporco e il dolore abbiano mai fatto.

Puoi immaginare cosa significhi crescere da soli? Nutrirsi d’odio e cercare al contempo delle carezze? Tutte le persone a cui mi sono avvicinata sono sparite in modi più o meno violenti. L’unico amore che ho conosciuto è nato nell'odio e nella violenza che mi hanno messa al mondo, incastrato tra le crepe lasciate dalla rabbia mai spenta, nella fossa dei rimorsi placati tra gli abbracci a fil di lama. L’amore vissuto nell'ombra della violenza che placa la sete, nelle ferite lasciate scoperte, nelle frasi non dette. Tra le acque torbide e gli abissi insondabili, nel denso scorrere del sangue dove l'ho lasciato espandersi libero.

È una faccenda strana il destino. Potrebbe filare via invisibile nel rumore quotidiano, e invece brucia dietro di sé, qua e là, alcuni istanti fra i mille di una vita. Quando meno te lo aspetti arriva il giorno terribile in cui quei frammenti ardono, disegnando la via di fuga della sorte. Fuochi solitari, lampanti, impossibili da ignorare.
Forse l’istinto ha tutte le risposte, ma quando lo lascio scegliere al posto mio è come scatenare un uragano, di fiamme. Nel suo nucleo sta la verità, ma tutto intorno ardono le macerie che ne pagano il prezzo.

Quando scende la notte la penna inizia a muoversi come se fosse preda di un maleficio. La mano che la tiene trema, eppure scrive. Scrive di ombre sul sentiero, scrive di sangue feroce. Scrive il bianco del corpo ed il colore funereo della terra. Ma se la terra potesse scrivere avrebbe il colore del silenzio, non di questa rabbia. Violenta. Nera.


mirror


Composta neve in disordinata speranza,
la mia sorda, stolta, preghiera di fame.
Sono sogni muti che impressi rimangono dentro,
come un respiro trattenuto d'ossigeno ardente.

Sogni disperati che non ti parlano né fremono di spiegarsi.
Sogni che aprono la strada del buio, bruciando
fino a raschiare nel fondo il calore della cenere.
Sono sogni muti quelli che ti rivelano la verità,
in un chiasso assordante di musica cruda.

Apnea di vita che libera, preme, e di nuovo libera.
Con la bava alla bocca cerchi il tuo posto, un posto nel mondo.
C'è un tempo per il coraggio ed un tempo per la cautela,
un tempo onesto e tremante in cui aspettare,
e un tempo rapido da rincorrere e superare,
per offendere il cielo dove fugge chi ha fame.

Ci sono paesi come finestre,
in cui scegliere la viltà e i grandi rifiuti.
E finestre come paesi,
in cui gettarsi tra le braccia della vita.
Consumandosi, nell'ansia di scacciare via qualcosa
nell'ansia di rincorrerla.

E' una mascherata tetra e allegra questo tempo che sfugge.
Che cosa cerchiamo di afferrare nella sabbia che sprofonda?
Qualcosa. Tutto. Niente.
Un bisogno di mascherarsi, di spogliarsi. Un cuore vivo.

I miei occhi sono troppo aperti per seguire un'unicità di percorso.
Vedo un sole troppo grande per la mia resistenza,
vedo neve troppo soffice e gelida per il mio corpo.
Di luce muore chi col freddo non si muove.

Nella grazia di questo dolore mi piego,
e conto le ore, i crampi nello stomaco.
Il sangue caldo cola giù a piccole dosi,
si rannicchia timido sul pavimento,
mi ruba tutto e lascia tracce di cenere, di me,
come un mattino che distrugge le ferite,
gonfiandole a dismisura.

view post Posted: 23/3/2020, 17:30 Il Canto dell'Odio - Le leggende di Faerun

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♪♫♬musica♬♫♪


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La notte è splendida e gelata: la quiete lunare illumina debolmente la bruma che invade la boscaglia e le ombre degli alberi si allungano ai margini della via. Deboli fiaccole accese nella piccola radura cimiteriale a ridosso della montagna illuminano tante lapidi diverse, vessilli della vanità delle illusioni dei mortali.

“Siamo qui oggi per commemorare un eroe…”

Più mi soffermo a scorrere lo sguardo sulla varietà dei versi celebrativi incisi sulle pietre rovinate, e più sento crescere la voglia di ridere. Ridere a crepapelle, come se non ci fosse alcun domani, alcun significato oltre il puzzo di questo luogo di morte. Come se non ci fossero loro a guardarmi severi.

Invece non rido. Ascolto le loro parole, le lascio fluire attraverso di me, imbrattandole di tutta l’oscurità che riesco a portare.
Non ho più alcuna voglia di ridere. Penso a mio padre che è ugualmente sotto terra, che non ha una tomba, che non sarà mai celebrato. Eppure i vermi banchettano col suo corpo e la mia rabbia cresce, di pari passo con l’orgoglio che leggo negli occhi dei soldati. E’ possibile ammirarli ed odiarli al contempo?

“Lo so a cosa stai pensando.”

Per un attimo mi assale la paura, non di morire o di fallire, ma una paura più grande, lo spettro stesso dell’esistenza nefasta che incombe su ognuno di noi col suo fardello carico di sventure, perdite, dolore.

La dozzinale paura di dover rinunciare a un’abitudine, perseguitata da un qualche sortilegio che mi lega intimamente a qualcuno dal quale vorrei al tempo stesso liberarmi, per non rischiare di soffrire ancora.


≑≑ II ≑≑

mago


Forse le prigioni che crediamo di desiderare sono le peggiori e le più infime. Ma ci ostiniamo a sceglierle, per qualche oscura ragione che sembra lenire il nostro animo nel momento stesso in cui cediamo a vincoli dolorosi.

Ogni giorno perdo uno scorcio di sole.
L’età acerba si protende verso la terra,
mi ancora a fondo come un macigno,
mi seduce, mi trascina e poi tracima.

Polvere alla polvere, tempo che scorre,
speranze che esondano sulla mia fretta,
attimi che perdurano sulla mia calma.

Ogni giorno perdo tutto:
i significati, le velleità del buio,
gli sbagli, gli abbagli, le rime.

Ogni giorno mi ritrovo:
l’elemosina del tempo, l’ansia nel petto,
la meraviglia negli occhi, il sale sulle ferite.

Che orrore mi fa l’idea d’esser inutile,
ben istruita a capo chino, piena di promesse,
sbiadita verso un’età indifferente.

Che sollievo la neve candida sulla pelle,
acqua che si scioglie e bianco che permane,
come le promesse in cui non posso credere
come il tempo che non ci darà ragione.


Ogni giorno un sottile strato di polvere si accumulerà sul fondo, come il tempo che ci sfuggirà avvicinandoci alla decadenza. Ogni giorno un po’ di pulviscolo evanescente permarrà nell’aria, come le carezze impalpabili delle parole che ci diremo.

Quando sarà scesa tutta ti aspetterò ai confini del mondo.


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view post Posted: 19/3/2020, 18:40 Il Canto dell'Odio - Le leggende di Faerun

*
- Lasciatemi così. Ho fatto tutto il giro ed ho capito. Il mondo si legge anche all’incontrario. -


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♪♫♬musica♬♫♪


Le dita raggrinzite dalle unghie acuminate, di un giallo opaco e mortifero, si posano sui tarocchi accarezzandoli con una dolcezza che si riserverebbe solo al più raro degli amanti. Tuttavia le carte appaiono consunte, ingiallite, erose dal tempo e dalle speranze che centinaia di sconosciuti vi hanno posato sopra, sfiorandole.

La voce della megera è aspra e rugginosa, lascia addosso una sensazione di sporco, che pure il mio olfatto non coglie. Dispone le mie carte sulla tovaglietta ricamata di fili d’oro e mi guarda solo di sfuggita, come se nessuna delle risposte ai miei quesiti potesse realmente provenire da me.

Quando le lascio la moneta di platino scintillante sul tavolo, per la prima volta mi fissa intensamente negli occhi.

“Le compro tutte. Hai un minuto per pensarci.”


* * *


Richiudo con calma la porta di casa, assicurandomi di girare la chiave almeno per quattro mandate. Poi cammino avanti e indietro, nello spazio angusto, non so quante volte. Infine mi fermo di fronte al pezzo di muro più spoglio che resta, ed osservo le pietre cercando una geometria che ancora non possiedono.

Abbasso lo sguardo sul mazzo dei tarocchi che ho in mano, scorro le carte una ad una, le accarezzo anch’io, con meno dolcezza di quanta ne metteva lei, incurante dei loro nomi e dei loro significati. Guardo soltanto le figure, disegnate da chissà chi, e ne scelgo una.

“L’appeso”

Ho deciso che sarà la prima del mio tavolo, che in realtà è un muro. Prendo un chiodo mezzo arrugginito e la attacco con meticolosa cura. Tutto il vuoto attorno mi infastidisce, ma devo imparare ad avere pazienza.

Nella mia mente si rincorrono pensieri contrastanti mentre osservo il condannato appeso, torturato forse? O destinato ad espiare le proprie colpe attraverso la sofferenza di una morte lenta e dolorosa? Passivo, indolente, sacrificio inutile.
Una posizione fissa che s’oppone ai cambiamenti, che penzola sull’orlo di un abisso sconosciuto verso il quale null’altro cade se non il suo sguardo.
Piego appena il capo, immaginando di cambiare prospettiva. Il significato si capovolge, la forma rimane la stessa. Mi accorgo di desiderare follemente quella duplice, semplice, verità.

Perché quando io mi fermo, e mi esamino nell’intimo, divento pazza. C’è dentro di tutto, e io non so quale direzione prendere, trascinata come una pagliuzza contro orizzonti troppo lontani perché li possa raggiungere.

Ripongo il resto del mazzo in un cassetto e mi giro verso l’altra parete, ben più caotica. Forme scure e matasse di colore mi osservano protendendosi dalla tela bianca. Grovigli di linee senza uno scopo, nate da una consapevolezza che non può avere voce.
Impossibili da dipanare, difficili da reinventare. Preferisco che ogni fibra si spezzi e vinca la furia, concedendomi un’ingorda pausa dal pensiero.

Ma il nero rimane lì, immobile come l’appeso, a fissarmi senza occhi, a parlarmi con la voce della mia coscienza.
Abbasso lo sguardo sulla mia mano, pulita, candida. Eppure anche adesso riesco a vedere la stessa macchia che ho cercato di spiegare a lui, in un tentativo disperato di fonderla con la sua stessa pelle, per poterne provare anche solo un flebile sollievo, un defaticamento da tutto il suo peso.

“Ho deciso di cercare mia madre.”

Il ricordo del suono di quelle parole, che mai avrei pensato di pronunciare, rimbomba nella mia testa togliendomi il respiro. Devo essere impazzita.

…E se…

Se potessi girare la carta dell’appeso? Se scavando là sotto, oltre il confine del tarocco, nell’abisso di melma che certamente lo attende con spasmi mefitici, io trovassi la forza che mi manca?

L’opposto della paura, la vera essenza dell’odio che provo da quando ho memoria.

Se dovessi anch’io sacrificarmi, mettermi a testa in giù e osservare, per poi sollevarmi ancora, libera una volta per tutte dalle catene di un passato che mi grida da ogni specchio, che mi afferra le caviglie e mi costringe a trascinare una metà di me che vorrei rinnegare?

Non hai bisogno di una madre Silerah, tu sei figlia di un soldato zhent. Crescerai forte e orgogliosa, bambina mia.”

Il silenzio si riavvolge come la marea, percorrendo a ritroso i miei pochi anni, mettendo a nudo i ciottoli e le conchiglie e tutti i relitti ammaccati della mia vita. Ed io, nel mio corpo di meticcia non ancora donna, racconto alle stelle i miei problemi e reprimo poteri che mi consumano.
Prego un Dio lontano che non comprendo, con parole che non hanno alcun reale significato per me, ma mi aiuta a prender sonno la sera, anche se mi terrorizza questa cosa oscura che dorme in me. Maligna.

“Ti farò un dono, ma è molto importante che tu rifletta bene su ciò che rappresenta.”

Sono una strega, e sono una donna che è madre di sé stessa. Chi sia la causa scatenante dell'uragano non importa. Non importa la sostanza, non la fonte, ma il ritmo, il ritmo indemoniato.

Oggi disperazione, domani entusiasmo, amore, nuovo gettarsi anima e corpo, e il giorno dopo, di nuovo, disperazione. E tutto questo in presenza di un'intelligenza acuta, fredda, cinica.

Le cause scatenanti di ieri oggi vengono derise in modo spiritoso e crudele. Come una grandissima stufa che, per funzionare, ha bisogno di legna, legna, legna…e la qualità della legna non è molto importante.

Finché il tiraggio è buono, tutto si trasforma in fiamma.


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view post Posted: 16/3/2020, 14:18 Consegna per Ssyther - Zhentil Keep

Un garzone dalle vesti umili bussa alla dimora del mago, dopo aver poggiato a terra il pacco dalla forma rettangolare e sottile.
Un involucro di stoffa nera avvolge il contenuto, fermato con un nastro rosso.

La tela all'interno ha uno strano odore, piuttosto pungente. Sembra ancora fresca in certi punti.
La tecnica appare mista: inchiostro scuro, colori ad olio, gesso bianco. In alcuni punti il rosso scuro è così granuloso e materico che potrebbe quasi sembrare sangue rappreso.

Sul retro una spilla infissa sul telaio tiene fermo un fogliettino di carta che recita:

Menti rinchiuse dietro sbarre d’acciaio,
possiedono chiavi che cedono al burattinaio.
Ogni arto scomposto e dal filo domato,
penzola come corda dell’impiccato.


Nessun altro biglietto o firma accompagnano il pacco.

burattinaio

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