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Attraverso la roccia illusoria, nei meandri della montagna, si cela un luogo di confine che fino ad oggi era soltanto inchiostro su una mappa. Inesplorato, ostile, resistente alla conquista di coloro che nel nome del tiranno reclamano terreno. Soldati dal destino ignoto, pedine sacrificabili ma temprate dalla fede, come un’ossatura d’acciaio sotto la pelle, un martellare continuo che costringe ad osare, sempre di più.
“Bane domina!”
Cunicoli angusti, metallo che stride, sangue che impregna la terra, vegetazione feroce. Sono tutti qui con me, ma non sono qui per me. Combattono perché non conoscono altra strada che la prevaricazione, avanzano perché fermarsi significa perire. Noi non possiamo essere deboli, noi siamo figli del terrore, del terrore ci nutriamo e nel terrore viviamo.
Cerco i suoi occhi a quel pensiero, per fuggire attraverso gli unici spiragli di pace che conosco. Due pozzi neri mi fissano dall’alto di un volto infernale.
Spore nocive riempiono lo spazio, l’aria è satura, la terra trema, la stanza ci offre una visione surreale. Mentre il crollo imminente incalza costringendoci a pensare in fretta, per me il tempo si ferma e mi porta con sé.
I corpi dei soldati sono imprigionati dalla vegetazione, inglobati dal frutto insano di questa flora, avvolti da una strana resina di spore trasparenti e solidificate. Intatti, conservati in un riposo inviolato totalmente naturale, cristallizzati nella loro ultima e terribile espressione di addio alla vita. Il fiato rubato da un silenzio che soffoca il grido, le dita strette attorno a sciocchi baluardi di violenza.
Il viso di mio padre mi fissa attraverso la resina. Come cambiano i volti nei ricordi: si deformano accompagnando i pensieri, le mancanze, i desideri. Eppure lo riconosco, così reale da non sembrarmi vero.
Si ferma il cuore, rallenta la mente, l’energia del sangue mi scava nel profondo, rompe quel velo sempre più pesante e sempre più comodo, quello che da scudo diventa spada. Si sovrappongono i ricordi, la rabbia, il dolore, l’esigenza di sentire ancora quella voce. Non posso accettare che sia morto così. Dovrei chinare il capo, lodare il dio che l’ha spedito quaggiù, essere fiera del suo suicidio. La cosa più preziosa e più grottesca è vedere il re mentre piange i suoi sudditi prima di ucciderli tutti.
Riprende a pulsare il cuore di piombo, infiamma gli occhi, batte come i martelli sulle teste di chi muore solo. La verità nei polpastrelli solcati dal freddo della casa che non ho avuto, tagliati dai filamenti di questa vegetazione ingorda.
Strade, palazzi, alte mura, armature scure come la notte, occhi sempre più freddi, gli occhi che pur fingevano di volermi bene. Soldati strappati a vite fugaci, ad affetti impossibili, che ancora scrivono il proprio nome nel limbo fallace del tempo immobile che li custodisce.
Vivere nel timore sembrava un’opportunità. E non si trattava neanche di paura, non si trattava di pietà.
Quanto dolore sospeso, quanto dolore inesploso. Mentre scorre, scorre e brucia nelle mie vene, un unico enorme interrogativo.
Il tempo ricomincia a scorrere, gli altri mi urtano, hanno fretta di uscire, potremmo morire tutti. Il corpo di mio padre cade a peso morto, avvolto nel sacco a pelo e caricato su spalle possenti. Lui mi scuote, dobbiamo andare.
Ripercorriamo i cunicoli mentre il soffitto inizia a franare, e il fuoco sgorga dai meandri del mio essere, si abbatte su ogni residuo del verde malsano che ha reso quest’antro un covo mortale.
Parole arcane più simili a un grido, che erompe dalle mie labbra e mi deforma i lineamenti. Un urlo che non chiede aiuto ma vuol far sapere che esisto, che _io_ esisto, e che ora conosco.
Forse è un urlo in cui in fondo all'ansia si sente qualche vile accento di speranza. Oppure un urlo di certezza, assolutamente assurda, dentro a cui risuona, pura, la disperazione.
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Il piccolo cimitero al riparo nell’insenatura rocciosa è avvolto dal silenzio della sera. Le poche lapidi sono semplici, alcune corrose dal tempo, altre riportano brevi dediche senza troppi fronzoli.
L’accolito fa oscillare l’aspersorio mentre la sorella vigile si prepara ad indossare i paramenti sacri. I fumi degli incensi aleggiano sopra le tombe mischiandosi alla foschia notturna. I soldati poggiano a terra il corpo di mio padre, usandogli un rispetto di cui non li credevo capaci. Scopro lentamente il suo volto scostando il lenzuolo, cerco di imprimerlo nella mente lasciando che si mischi ai ricordi della ragazzina che non sono più. Quello strano sortilegio naturale ha conservato i suoi lineamenti, offrendomi un’ultima preziosa occasione per dirgli addio.
Il bardo ha sistemato le assi: la bara è semplice e anonima come gli avevo chiesto. Mio padre era un uomo umile, non è mai stato un eroe, nemmeno morendo per la causa che aveva servito durante tutta la sua vita è riuscito a fare qualcosa di memorabile. Ma per me, per la mezzelfa spaurita che ero, lo è stato in ogni attimo.
L’uomo che mi ha accettata come suo errore, che mi ha cresciuta seppur dalla distanza, che ha creduto in me quando non ero che un rifiuto della bassa società zhent. Un soldato dalle mani ruvide, ancora in grado di accarezzare qualcosa di delicato e capirne il valore.
Mentre contemplo il suo volto, e l’accarezzo per l’ultima volta, combatto tra la dolcezza dei ricordi più banali che ho di lui e la rabbia che mi monta dallo stomaco, che mi chiede soltanto di lasciarle sfogo. Ancora una volta serro la mascella e respiro lentamente, ancora una volta soffoco quell’unico inesauribile fiammifero che non può divampare.
“Alcuni direbbero che i figli di Zhentil hanno luoghi come questo poiché piangono morti in ogni luogo del Faerun. Su una cosa sola peccano: noi non piangiamo.”
La voce della sacerdotessa è ferma e solenne, rimbomba appena, in lontananza, riempiendo il vuoto della notte. In cuor mio le sarò sempre grata per tutto questo, anche se ho la certezza che lo faccia soltanto per dar voce al suo zelo religioso. Forse, in un mondo diverso, saremmo persino buone amiche.
Le sue parole in questa notte sono solo per te, padre. E per quelli che sono qui stasera, per i motivi più disparati, a chiedersi se anche loro moriranno per la fede, se qualcuno mai li cercherà quando cadranno, se saranno vincitori, eroi, o sconfitti.
Guardo il tuo volto immobile, padre, e centinaia di domande percorrono lo spazio che ci separa. Cosa ci fa sentire vivi, immensamente vivi? Cosa ci uccide? Cosa ci riempie di morte mentre ancora viviamo?
Risposte sconosciute, risposte scontante, da contare sulla punta delle dita di una mano. Le lezioni per disimparare, i comportamenti da tenere, gli interrogativi cruciali e i dubbi esistenziali.
Cambiare, osare, distruggere, sanguinare. Lacrime sulle guance di una donna bionda che non scendono, la rabbia negli occhi di una figlia orfana fin dal principio del suo esistere.
Essere vivi, odiare, serbare rancore per costringersi a non morire. Non ancora, non adesso. La stessa passione che anima le mani quando sfiorano, quando graffiano la pelle di chi hai amato, la stessa sete che amplifica i sapori e gli odori eppur puzza costantemente di morte.
Io che sono nata in una città circondata da mura fortificate, sono fatta per essere devastata. Un pensiero isolato tra i mille che mi attraversano il cuore: è curioso che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare la distruzione.
“In un solo modo otterrai quanto ti spetta: Odio. Per ogni singolo caduto che ci è stato strappato, per il modo in cui ci è stato sottratto il diritto di piangere i nostri morti.
Odio. Perché metà Faerun davanti al suo gesto eroico verrebbe qui a sputare sulla sua lapide.
Odio. Perché loro non si fermeranno ad un solo caduto, e verrà il giorno in cui busseranno alla tua porta di figlia pretendendo ancora sangue per la tua fede.”
Odio. L’unica fiamma perenne, inestinguibile. Perché nulla colma la voragine corrosa dal suo rimestarsi nel profondo del cuore. Oltraggi imperdonabili, che nessuna vendetta può placare. Un vuoto che non troverà mai abbastanza sangue per dirsi colmato. Una nota latente, che risuona nel fondo più buio della coscienza, pronta ad entrare in risonanza con mille altre armonie sparse nel mondo. Canti di collera, di sdegno, risentimento, dolore. S’alza un coro magnifico e terrificante quando tutto combacia e l’odio dilaga, imbrigliato, canalizzato, inarrestabile.
E dunque, cosa ci fa sentire vivi, immensamente vivi? Lentamente le risposte vengono a galla. In fin dei conti le ho sempre conosciute.
Cerco lo sguardo dell’unica persona che non potrei mai odiare, e mi chiedo se senza quel combustibile divino potrò continuare a riempire le nostre giornate di vita, attingendo soltanto a ciò che dell’odio è l’esatto contrario.
“La sua lama era mossa da un sogno: che ogni filo d’erba del Faerun fosse cinto da Nere Mura. In suo onore, ed in sua memoria, facciamo nostro quel sogno.”
La mano della donna mi accarezza con una dolcezza di cui non è certo capace. La immagino provare quei gesti centinaia di volte, come un rito da compiere nel modo corretto, senza aver alcuna empatia per ciò che quei gesti trasmettono. La litania in infernale cresce e si diffonde, l’energia malvagia inizia a pervadermi come una tentazione squisita a cui solo uno stolto opporrebbe resistenza.
Espiazione. Il silenzio che segue la fine dell’incanto distilla gocce di una pace totale, che forse non ho mai provato prima d’ora.
Il peso della colpa svanisce, la certezza dell’odio rimane.
“Maestro d’Armi, mi fareste l’onore di scavare per questo soldato il giaciglio ultimo?”
Come potrei dimenticare tutte le volte che mio padre mi aveva parlato di quel mezzorco, narrandomi gesta ed imprese eroiche degli Zhentilar in cui tanto credeva. Così tanto da morire per un ordine di qualcuno al pari del mezzorco che ora si china e scava la terra scura.
“Un guerriero deve morire in modo onorevole o avere una sepoltura militare. E’ la tua ultima missione, Zhentilar. Combattila ed eseguila.”
La bara viene chiusa ed inizia a sprofondare nella terra. Questo è realmente un addio, ed è forse il momento più stupido per iniziare a piangere. Non posso farlo. Semplicemente, non posso.
La temperatura inizia ad essere gelida in questa notte piena di ricordi. Un lieve spostamento d’aria attrae il mio sguardo verso il buio di fronte a me.
Una figura spettrale, immobile, mi fissa. Un ultimo sguardo, secondi rubati alla frenesia del tempo, l’ultimo desiderio di un padre che ha lasciato sola la figlia tra le insidie del mondo.
Non riesco a dire neanche una parola. Tutto ciò che andava detto è esattamente in quello sguardo. Piange tutto, dentro di me, tutto tranne i miei occhi. Ora so che lui avrà pace, e questa consapevolezza non mi alleggerisce se non per qualche istante. Perché io rimango qui, a portare il peso di ciò che va fatto, a lottare, ad arrancare.
Ma non sono sola, padre. Hai visto? Non devi preoccuparti per me. Starò bene.
Sì, forse gli avrei detto solamente questo. Come se fossi una figlia qualsiasi, che piange il padre e poi torna al focolare ad accudire i figli per dar loro un futuro migliore di quello che è toccato a lei.
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Ma il mio focolare è molto diverso. Richiudo la porta e mi stringo a lui. Perché adesso posso piangere, ogni singola lacrima, soltanto con lui, soltanto su di lui. Perché non mi sento debole nel farlo, perché non mi sento stupida. Perché se l’odio mi terrà viva quanto basta per compiere le mie ambizioni, è l’amore che darà un senso a questa ostinata voglia di non arrendersi.
Sono sfinita e provata da ogni singolo attimo di queste giornate. Mi infilo sotto le coperte e lascio il medaglione, preso a mio padre, poggiato sul tavolino. Non voglio vedere il suo interno, non sono ancora pronta.
Respiro, ascolto la notte. Non c'è alcun rumore particolare, solo il lieve mormorio del silenzio che emette una musa che dorme. Nessuno per strada, nessun insonne divorato dalla fame.
I fiumi dei pensieri corrono così forte da straripare, per poi arrivare alla foce ed innalzarsi in contrasto con l'incosciente mare. Un uragano di dubbi, agitato e confuso, e al contempo calmo, composto, sicuramente sconfinato.
Domande inchiodate alla parete nella speranza di certezze. Le stesse di cui forse si è macchiata mia madre, le stesse per cui venire accusati negli anni in cui si nuota a largo, dove i piedi non toccano, dove per non affogare conviene fare il morto.
La vecchia che mi ha cresciuta ripeteva ogni stagione che quell'anno il freddo avrebbe ucciso anche l'inverno. E quel freddo permane, mentre cerco pace, mentre mi ribello, incrociando le labbra con le sue, così rotte, così secche, che ogni bacio lacera la pelle.
Infondo non facciamo altro che morire ogni giorno un po’, ma tra le braccia l’uno dell’altro, forse, riusciamo a non perderci in frantumi.