| Così era finita. Sembravano essere passati mesi o anni, ma erano solo pochi giorni da quando Lupyon si era ritrovato, quasi senza accorgersene, a far parte di quello strano ed eterogeneo gruppo. Aveva appena rimesso piede a Waterdeep, la sua Waterdeep, non sapeva ancora bene per far cosa. Da un lato c'era l'amore di bambino per quelle vie splendenti che l'avevano visto nascere e crescere, ma anche per i vicoli bui e i luoghi mal frequentati nei quali aveva faticosamente guadagnato la sua indipendenza, la sua individualità; d'altra parte permaneva in lui il rancore verso il padre, verso tutto un sistema che lo rappresentava, fatto di traffici economici, merci multicolori, caselle perfette in cui tutto andava infilato a forza, anche se -come il figlio- aveva un'altra forma e non c'entrava affatto. Girando per le vie con questi pensieri confusi in testa si era imbattuto in quella banda, intenta a parlare con un vecchio in preda al panico che li pregava di salvare sua nipote. Aveva riconosciuto Lorelei, una ragazza incontrata pochi mesi prima al Gate e salutandola si era fermato a chiedere se servisse aiuto. Forse era stata la pena per quel pover'uomo e la bambina scomparsa, forse quello spirito di avventura che non lo faceva mai star fermo, più probabilmente -ma allora non l'avrebbe capito, o quantomeno ammesso- l'urgenza costante di provarsi capace, di dimostrare a suo padre (a sé stesso?) che il suo posto non era su un carro carico di stoffe e filati o dietro al banco di un negozio.
Prima di capire cosa stesse facendo, si era ritrovato a cercare indizi in un cimitero, a menare colpi di spada al porto contro un mucchio di malintenzionati al servizio di un trafficante di Mordayn, ad imbarcarsi su una nave diretta chissà dove, con un capitano ed un equipaggio che non avevano intenzione di far giungere vivi a destinazione lui e i suoi compagni. Già, i compagni: un gruppo strano ed eterogeneo, fatto di paladini, arcanisti, finanche loschi figuri; ma senza i quali probabilmente ci sarebbe crepato, su quella nave, lui che dall'alto dei suoi anni nei bassifondi si sentiva di aver visto tutto e di sapersela cavare in ogni situazione.
Che non aveva visto praticamente nulla, né giocando a fare il ladruncolo-con-un'-etica tra i reietti della Splendente, ma nemmeno nei suoi più recenti viaggi tra le terre del Faerun, lo capì giunto in quel porto sotterraneo, passando per un ingresso che non vedeva, e gli fu sempre più chiaro man mano che la loro ricerca proseguiva. Un'enorme città sotterranea, popolata da creature di ogni tipo che facevano sembrare i tagliagole del porto di Waterdeep affettuosi come il Tressym di sua madre, sotto il giogo di Teschi fiammeggianti che imponevano regole e dispensavano pene folli e terribili: mai avrebbe dimenticato quel pover'uomo costretto da loro a dire sempre il contrario di ciò che intendeva. Clan di Drow in guerra tra loro, Ettin con disturbi di personalità, Goblin traditori e Ilithid rinnegati disposti a dar loro una mano. Fino all’arrivo in quella fortezza sotterranea, dove aveva visto in faccia il male in tante di quelle forme che non avrebbe saputo da dove cominciare ad elencarle: chierici di divinità malvagie mai conosciute, ripugnanti incroci tra ragni ed elfi oscuri, Beholder non morti... e quel "Gran Maestro", come lo chiamavano, potentissimo necromante sfuggito alla morte, a capo di un'orda di scheletri di sangue ed altri esseri immondi.
Eppure, contro ogni probabilità, ce l'avevano fatta. In qualche modo erano riusciti ad avere la meglio (seppur temporaneamente) sul Lich, a recuperare la piccola Sisha e anche a tirar fuori di là altri disperati. Avevano assistito a storie personali di sofferenza e a nobili gesti di sacrificio, come quello di un coraggioso Hin che non avrebbe dimenticato presto. Ma la vicenda che l'aveva più segnato e fatto pensare era quella di quella donna, quella Mirrah. Lupyon amava pensarsi come uno che sapeva vedere le cose oltre il bianco e il nero, riuscendo a cogliere le sfumature e non giudicando il prossimo in base a schemi troppo rigidi. Ma presto, scoperto che c'era lei dietro al rapimento, l'aveva bollata come pazza criminale, scoprendo solo più tardi i dettagli, le sfumature appunto: il dolore straziante per una perdita ingiusta e incomprensibile; la ricerca di conforto e pace nell'abuso di una sostanza; la caduta in un folle abisso e l'illusione di ritrovare ciò che aveva perso; il dolore e il pentimento una volta compreso appieno cosa stava facendo e il male che ad altri avrebbe arrecato; la disposizione al sacrificio personale, per riscattare quell'amore che l'aveva spinta a commettere tanto male.
La storia di Mirrah e quella di Lupyon non erano nemmeno lontane parenti. Non c'erano chissà quali analogie o punti comuni. Ma una persona aveva commesso delle ingiustizie spinta dall'amore per la figlia e tanto bastò a farlo riflettere. Il fatto che suo padre l'avesse messo alla porta, ad appena 14 anni e basandosi su una sciocca tradizione, per non voler seguire il percorso che gli era stato tracciato, era sì un gesto crudele e inaccettabile; ma per la prima volta iniziò a pensare che, nel suo modo contorto e col suo strano sistema di valori, l'uomo avesse creduto di farlo per il bene del figlio. Lupyon non lo avrebbe mai giustificato, ma ora, forse, riusciva a vedere la cosa con gli occhi del padre e improvvisamente quel rancore cieco e quel desiderio di rivalsa che si portava dentro da 10 anni si affievolì e si spense. Se quel Wayne Blackrose, che appena incontrato aveva superficialmente bollato come un manichino ingessato da norme e codicilli, aveva dimostrato di saper perdonare e capire quando fare la cosa giusta era più importante che applicare una legge, pensò, lui poteva almeno mettere in discussione le granitiche certezze che lo avevano accompagnato per tutto questo tempo.
Adesso, mentre tornavano accompagnando la piccola Sisha dal nonno, gli sembrava di essere un'altra persona. Aveva dei nuovi amici e molta meno rabbia. Forse era giunto il momento di tornare a vivere nella sua città. Di fare un passo avanti. Oltre i ricordi.
|